Concorso Liceo Scientifico "Frisi"
Fuori Concorso

 

PROLOGO DI UN VIAGGIO SUL QUALE NON SAPREMO MAI NULLA
di Federico Ghibaudo 1^G


Oh, mio caro Boris, come tutti i giorni ti ritrovi ancora qui, davanti al tuo computer, incapace di giocare ad altro che non sia questo stupido videogioco.
Ma forse é giusto così, é giusto che tu ti diverta con quello che é certamente il tuo unico amico e che non ti abbandonerà mai, fatta eccezione per un corto circuito. Un amico freddo come la neve che sta cadendo fuori, sulla gente che brulica di qua e di la in cerca di quell'introvabile regalo da fare a Natale.
La mamma mi urla dietro é stufa di vedermi sempre davanti ad un video come se non esistesse altro al mondo. Ma forse é proprio così, per me non esiste altro, non deve esistere altro, perché niente al mondo va a genio al giovane Boris Verne.
La mamma mi chiama un'altra volta, cercando di distogliermi da quella realtà formata da pixel: "Boris, fammi un piacere, va un attimo dallo zio a portargli la posta".
"D'accordo mamma". Non ho mai disubbidito, mai l'ho contraddetta, nè mai ho alzato la voce, ho sempre voluto bene a mia madre anche se non posso nascondere una certa ostilità quando definisce con vocaboli scurrili i miei oggetti elettronici.
Apro la porta, il freddo mi ghiaccia il sangue nelle vene. In estate mi piace andare in bicicletta, che col sole in faccia ed il vento tra i capelli mi dona vigore e forza (spiritualmente intendo). Ma in inverno tutto cambia, la neve ghiaccia la pelle provocando immense e continue fitte di dolore, il terreno é scivoloso e le cadute sono inevitabili.
Proprio grazie ad una cinquina di queste perdo quella poca credibilità che avevo in quella strada, che dal silenzio in cui era immersa ora é piena di fragorose risate di gente che mi conosce solo superficialmente e che d'ora in poi quando mi vedrà, dirà: "Ecco l'imbecille". Io, imbecille. Io, imbecille perché sono scoordinato. Io, imbecille perché non so farmi degli amici. Io, imbecille perché non ho un minimo di fegato per rispondere agli insulti.
Mi rialzo, porto la bici a mano per pochi passi ancora ed eccomi arrivato alla casa dello zio George.
Prima di entrare mi guardo intorno, tutte le case sono illuminate a festa e la gente col sorriso sulle labbra si affretta a rientrare. Si respira aria natalizia ma io non ne sono affatto felice. Odio il Natale e tutto ciò ad esso allegato da quella maledetta vigilia di tre anni fa dopo l'incidente, all'ospedale, ricordo ancora le ultime parole di mio padre: "Non serbare rancore al mondo, é così che va la vita, impara ad amarla così come é". Ma sinceramente non gli ho mai dato ascolto.
Busso. Un uomo alto, sulla cinquantina, dai capelli bianchi e dai futuristici occhiali scuri, apre e mi fa entrare senza dirmi niente.
"Ti ho portato la posta zio" gli dico cercando di creare un discorso. Ma è sempre stato difficile parlare con lo zio o forse sono sempre stato io a non essere un buon parlatore.
"Grazie. Vuoi un té Boris?" Mi domanda, e senza attendere una risposta si allontana dalla stanza.
Geoge ed io siamo molto simili, entrambi siamo uomini (se così si può chiamare un ragazzo di quindici anni) solitari e di poche parole.
Dalla soffice poltrona di pelle in cui sono seduto posso vedere un mucchio di strani oggetti, alcuni straordinari altri incomprensibili. Io sono un gran curiosone e non posso non andare in giro per la casa.
In fondo ad un corridoio una porta socchiusa accende nel mio cuore una strana sensazione; devo andare a vedere.
Aperta la porta mi si presenta una grande stanza piena di computer di molto superiori al mio. Al centro un grande oggetto ovale con un sedile in mezzo é come se mi invitasse a sedermi. Così faccio. Centinaio di leve e di pulsanti mi incuriosiscono ancora di più. Devo toccare qualcosa, tiro una leva e...


(...e Boris inizia un viaggio sul quale non ci dirà mai nulla... Forse.)