Concorso "Federico Ghibaudo"



"REALTA'"
di Vittorio Crippa 4^I






Un rumore, sordo ritmico si accese nel mio corpo, era caldo, familiare, ma era la prima volta che lo udivo.
Un lampo accecante lacerò il mio buio.
Fu dagli occhi che bevvi il primo, bianco, dolore.
Aperti gli occhi, la luce sembrò affievolirsi. Ombre scure e deformi si rincorrevano goffe, cieche, pervase da un che di feroce, fameliche dinnanzi al mio stupore.
Non vedevo nulla che non fosse degno di essere visto, non c'era più alcuna traccia della luce viva, forte che mi aveva sferzato gli occhi, ancora chiusi e inarrivabili.
Il cuore batteva.
Ovunque volessi poggiare lo sguardo, per dare riposo e soddisfazione a occhi già stanchi, mi sentivo pervaso dal gelo: vedevo oscurità di ombre e tenebra di luce.
Come se fosse un binario tangibile la tristezza risaliva il mio sguardo mi innondava di lacrime gli occhi, e mi trafiggeva l'anima.
Dibattersi, sbarrare gli occhi, piangere, stropicciare, stringere, gridare.
Nulla poteva servire.
Solo chiudere gli occhi e farsi trasportare in trionfo dalle cieche, Ombre Ghignanti.
Lo feci.
L'ho fatto.
Cosa ho fatto.
Lo rifarei.
L'ho fatto.
Cosa ho fatto!
Ma io volevo vedere, quasi non me ne rendevo conto.
Non riuscivo più a tenere il conto dei giorni perché duravano meno di attimi e la luna e le stelle e il sole e il buio si fondevano in un'oscura luminosità.
E ora l'aria, mi mancava l'aria, il respiro, mi mancava.
Mi sentii cadere.
Ero come avviluppato da un'impalpabile membrana.
Essa avvolgeva completamente il mio corpo e si distaccava dalla pelle non più di mezzo centimetro ma non sapevo dire con sicurezza se riuscissi a toccarla.
Nonostante ciò essa mi stringeva, mi massaggiava mi sfiorava, mi asfissiava.
Appena me ne accorsi venni assalito da un'angoscia profonda.
Gli anni mi scorrevano attraverso con un sferzare impetuoso di un vento tagliente.
Crescevo, senza scampo, i muscoli si gonfiavano, la pelle si segnava con le prime rughe, la luce non era più che l'ombra di un ricordo benché i miei occhi urlassero di voler vedere.
Ma, ostinato, il cuore batteva.
Lentamente, più acquistavo coscienza di me, più le Ombre che vedevo parevano perdere consistenza, dilatarsi, lasciare il loro abbozzato antropomorfismo.
Forse galleggiavo nell'aria, o nell'acqua, sì... decisamente nell'acqua... o forse ero schiacciato a terra, non saprei dire... più il tempo passava e più la realtà che percepivo, rotolante senza senso su se stessa, mi appariva confusa.
Provai allora, ancora una volta a guardare il cielo.
Vidi come delle schegge immense, che graffiavano l'orizzonte e si innalzavano, e laceravano e penetravano e... separavano.
Mi sentii come svuotare, impotente: LO AVEVANO FATTO! Le, cieche, Ombre Ghignanti, lo avevano...
Era duro, levigato, diamante. Ecco si ergeva immenso, pesante, conficcato nella palude.
La Cupola, lo Specchio che mi impediva di scorgere il Cielo.
D'improvviso decisi: stavo morendo, dovevo uscire, strappare, lacerare, quell'involucro che mi uccideva.
Cominciai a graffiarmi e a ferirmi con tutto ciò che le mie mani annaspanti riuscivano a trovare nel tentativo di schiudere il bozzolo. ormai il terrore del soffocamento inarrestabile si era impadronito di me.
Sentivo che tutti i miei muscoli erano impazziti nella tensione, nel tentativo di squarciare questa seconda pelle.
Ma tutto era inutile.
Non vi era idea abbastanza acuminata.
Non una convinzione abbastanza resistente.
Non logica abbastanza penetrante.
Per liberarmi.
Ma tutto serviva.
Bruciavano i tagli delle idee, acuminate.
Premevano i lividi delle convinzioni, rigide.
Torturavano gli squarci delle logiche, corrosive.
Ad uccidermi.
Il sangue, bruciante, iniziò a colare dalle ferite, mescolandosi col sudore dello sforzo.
Ormai però il mio corpo si era fatto pesante e rugoso così cercai nuovamente di urlare un grido d'aiuto: il silenzio mi sommerse.
Il sangue sgorgava dalle ferite che continuavo a infliggermi e me ne sentivo il corpo ricoperto: feci un ultimo disperato tentativo per respirare, ma... inspirai il mio sangue e il mio sudore, quel miscuglio che scorreva acre e bruciante fra il mio corpo e quella guaina.
Ma, ostile, il cuore batteva.
Nell'ultimo momento di lucidità mi toccai il volto: sentii le rughe profonde e mi passai le mani nella barba.
Bianca.
Nell'ultimo istante vidi per la prima volta di fronte a me qualcosa oltre le, cieche, Ombre Ghignanti, milioni di bozzoli fluttuanti come me.
All'interno altrettanti neonati dormienti.
Un lampo.
Lo stesso.
Ecco finalmente!
Finalmente?
Solo adesso?
Lo stesso che avevo visto e che mi aveva illuso della speranza che tornasse, che dissipasse le Ombre Ghignanti.
Che sia un riflesso?
Uno di neonati aprì gli occhi.
Io li chiusi.
E poi.
Più.
nulla...

Tutto il mondo può ora mettersi a parlare, a spiegare, con mille e mille ragionamenti e mille e mille dimostrazioni.
Aride.
False.
Io vedo con chiarezza.
Scorgo altri occhi e altri volti, altre domande uguali alla mia.
Non è tanto un dover resistere: è un voler vivere.
Voglio rinnegare il me stesso che sono stato.
Sono già caduto, cadrò ancora e ancora, ma attraverso altri, attraverso l'Altro, scorgerò, inciso nel cuore, l'infinito verso cui l'anima tende.
E poi.
Mai più solo.
Volerò.
più in là...