Concorso Letterario "Federico Ghibaudo"

3° Classificato


IL DONO

di Elena Cattaneo - 5^G


Ricordo con un’esattezza sorprendente, come se neanche un giorno fosse passato, quel venerdì d’agosto vermiglio, leggero e non più troppo caldo ormai.
I nostri abiti bianchi, quasi identici, ci rendevano macchie assopite in un giardino sfiorato appena dal presagio della sera vicina. E la nostre parole, forse altrettanto simili, aumentavano con la loro vacuità quel senso di sospensione che ogni anno avvertivo quando il vento cambiava direzione e sapore, o quando le serate d’agosto s’appesantivano di un’umidità aliena.
Ce ne stavamo tutti e quattro all’ombra del fico, nel giardino della casa di villeggiatura, io mia sorella Margherita, papà e zia Clara. Il ritmo delle chiacchiere talvolta seguiva quello delle cicale per poi interrompersi bruscamente, come se parola del singolo contasse poco quando non era supportata dal coro. Allora ci mettevamo a leggere, respirando il silenzio della natura, che per fortuna non è mai davvero silenzio. Amavamo molto i nostri libri e quel rito, che ogni giorno si consumava all’ombra ignara, ci rendeva forse meno stupidi, impedendoci di parlare.
Mi piaceva tutto di quel tempo. Tutto in quegli anni aveva poca importanza per me, vivevo in un eterno presente come se dimenticassi di relazionarmi in modo serio e profondo e opportuno ai fatti andati o agli eventi futuri; del resto nessuno mi biasimava. Loro, i miei familiari, erano anzi felici e soddisfatti. Venivo considerata come creatura lieve, spensierata; era molto facile amarmi. Cercavo protezione negli altri senza saperlo, e senza saperlo avevo una fiducia smisurata in tutti.
Mi piacevano le persone, soprattutto l’attenzione che prestavano ai miei racconti. Parlavo di qualunque cosa mi accadesse, forte della mia eccellente memoria e del potere d’affascinare la gente; le mie storie erano coloratissime e vuote, per questo venivano sempre ascoltate, per questo ora non ne voglio rammentare neanche una.
Non conoscevo l’amore, eccetto quello di figlia e sorella, tutta la mia vita era intrisa di sentimenti tiepidi e lo strano turbamento che talvolta avvertivo leggendo certe liriche greche mi confondeva ineludibilmente, poiché quelle parole, quegli aneliti a un amore totale, mi erano talmente estranei da non permettermi di comprendere; potevo solo intuire istintivamente, grazie ai semi di verità naturali che in ogni uomo sono presenti.

La fine dell’estate coincideva come ogni anno con l’intimo ritrovassi della famiglia e delle figure eccentriche o noiose o inverosimilmente languide di cari e vecchi amici. Nulla era mai cambiato. Non io, non la mia immagine e men che meno lo spirito di perenne, statica armonia che regolava i nostri rapporti. Ce ne stavamo lì, persi in mezzo al gioioso ritmo delle colline e delle valli, sotto un gigantesco fico a leggere e sorridere. Questa era la nostra vita.

In casa Franz stava suonando il violino, mia madre l’ascoltava semi assopita, con un’espressione di beatitudine sul volto, una di quelle espressioni che denunciavano velatamente la sua insoddisfazione di fondo; aveva bisogno, nessuno sapeva di cosa, bisogno e basta. La mamma era un fiore di campo, un fiore individualista tutto sommato, tendeva continuamente ad una dimensione propria e allo stesso tempo la temeva. Viveva così, apparentemente per gli altri e nessuno di noi s’interrogava mai sulla sua felicità. Ma c’erano dei momenti, come quando Franz suonava, in cui la sua natura si svelava; allora intuivamo un poco... forse intuire è anche peggio che ignorare poiché rende in un certo senso colpevoli. Anche il ragazzo, del resto, mutava volto ogni qualvolta suonava il violino, abbandonava la sua anonimità e quello sguardo languido che spesso l’accompagnava, era pervaso tutto dalla musica. Un nuovo Franz prendeva forma, allontanandosi dalla solita grigia compostezza.
Franz era il figlio adottivo della zia Clara; lei aveva deciso di prenderlo come figlio quando il giovane aveva già quattordici anni. Si chiamava Francesco, la zia aveva subito preso a chiamarlo Franz, per via di quei suoi occhi color del ghiaccio e della sua compostezza che lo rendevano simile a quei buffi stereotipi di uomo germanico. Parlavamo poco io e lui; a volte mi faceva paura. Erano i suoi occhi che cercavano e cercavano continuamente la gente a spaventarmi, tentava di conoscere le persone come se fosse un dovere e lo faceva con una meticolosità difficile da riconoscere. Ora mi chiedo se fosse ragionata, oppure una componente ragionata del suo essere. In fondo avvicinarsi a qualcuno era il suo divertimento. Franz aveva conosciuto il mondo così come il mondo gli si era presentato, non per mezzo di racconti, ma attraverso i suoi soli occhi; veniva sballottato da un orfanotrofio all’altro sotto i bombardamenti della guerra, piegato da una fame autentica che certe false preghiere delle suore non potevano saziare e dalle malattie dell’infanzia, crudeli con il suo corpo quanto la peste. Tuttavia il suo fisico era sopravvissuto benissimo, al contrario del suo spirito ribelle e autosufficiente. Molte volte aveva tentato di scappare, per poi tornare sui suoi passi spaventato dalla guerra, dal freddo, dall’intolleranza delle forze armate. Credeva in un mondo senza guerra solo grazie alle sue letture e ai pochi ricordi dei primi cinque anni di vita, in cui già sapeva suonare il violino, ed era anche questo a dargli la certezza di una realtà differente: i nitidi suoni che provenivano dal suo passato, le antiche melodie che mai lo avevano abbandonato. Musica era pace.
Così era sopravvissuto e aveva imparato a vivere, ascoltando il passato e leggendo. Quella musica che non poteva dimenticare gli dava forza... “L’ARTE dei suoni è per me proprio come il simbolo della vita: una commovente breve gioia, che s’alza e s’inabissa, non si sa perché; un’isola piccola, lieta, verde, con splendore di sole, con canti e suoni.”, si ripeteva spesso queste parole di Wackenroder.
Dopo aver suonato andava sempre in barca, remava per ore, fino al tramonto e piangeva. Non poteva vivere in mezzo alla gente per troppo tempo.
Lui mi amava, non sapevo in che termini, non sapevo quanto. Spesso mi guardava camminare in mezzo al giardino, al mattina presto, quando cercavo di ricordare i miei sogni della notte passata. Allora arrossivo, intuendo forse che i suoi sguardi tradivano la natura fraterna dell’affetto che ci legava.

“Ascoltate.” “Che cosa papà?”
“E’ Franz che suona per la mamma. Di quali meraviglie è capace quel ragazzo. Sono cose che lo renderanno un uomo.”
“E’ già un uomo.” disse Clara “Lo vedo quando il mattino presto mi guarda, dice appena, ciao madre, baciandomi il capo. Già avverte le cure di cui necessito e non da poco, mio figlio ha imparato la vita molto prima di conoscermi. Tanto ci è svelato attraverso la paura e lui ne ha viste di paure, oltre la propria.” e concludendo sorrise -lo sguardo perso a contemplare l’idea del figlio-.
“Questa è una grande verità davvero.” asserì mia sorella “Attraverso la paura si apprende molto di più che in dieci anni di latino e matematica, la paura forma il carattere. Perché vedete io credo che un buon intelletto e delle buone capacità logiche non valgono nulla se non sono supportate da una tempra decisa, spigliata. L’uomo necessita, soprattutto in questi tempi, un carattere che suggerisca l’immediatezza dell’azione.” tacque guardandosi intorno per tentare di cogliere segni di approvazione. Non ve ne furono alcuni, si alzò solo la voce della zia Clara: “Ma tesoro mio, Franz certo non è un uomo d’azione! La sua sensibilità è cambiata, ha acquisito lucidità... un proprio posto nel mondo, nella sua stessa vita. Franz è attento, tuttavia manca ancora di immediatezza e questo non è necessariamente un male, un limite certamente, ma non un male. Non è la tempra che serve all’intelletto, ma la dignità della consapevolezza e quel ragazzo ne ha anche in abbondanza! “tacque un istante e poi scoppiò in una grande aperta calda risata con cui voleva solo schernire un poco se stessa, e continuò “...e non mi guardate così male! Sarò anche un essere che ha in sé immediatezza di azione più che di pensiero, ma questo non vuol dire che io passi il tempo a compiacere me stessa. Lungi da me ogni narcisismo! Già, lo confesso -come del resto faccio sempre- vorrei essere diversa, tutto qua.” Che queste fossero le solite, care inutili battute che ogni tanto ci si scambiava era palese ai miei occhi, sebbene non capissi ancora quanta irrazionalità fosse nelle loro “esposizioni”. Fra noi si dialogava così, se uno chiedeva “come stai?”, l’altro rispondeva “Certo!” Ed entrambi proseguivano contenti nelle loro dissertazioni e in altre faccende. Non ci si chiedeva mai nulla di nulla, come se ad esempio l’immediatezza nell’agire fosse ben altro dall’impulsività e se dunque non presupponesse necessariamente immediatezza di pensiero. Ma era tanto bello così! Parlare senza capire ed essere felici come bambini.
La zia Clara comunque in certi momenti faceva emergere un tale vigore da stupire. Era una donna eccezionale, ecco tutto, scomoda forse al sesso forte -e per questo ancora nubile- ma pur sempre eccezionale. Non particolarmente brillante, né bella, ma senz’altro viva e decisa, nonché onesta. Amavo la sua onestà semplice, popolare, per me lei era ciò che diceva di essere e faceva ciò che diceva voler fare. Da anni ormai la sua vita era stata Franz, aveva preso il ragazzo come un impegno e contemporaneamente come forza vitale. Aveva risvegliato in lui tutti i ricordi della musica anche i più profondi, in una sorta di anamnesi per cui egli l’avrebbe sempre ringraziata.
Il legame fra me e Clara si andava consolidando con il passare degli anni, credevo che le nostre semplicità si incontrassero e combaciassero completamente. Nondimeno ero molto sensibile all’amore maestoso e per un certo senso solenne che provava per Franz, un sentimento intriso di una dignità grandissima che veniva dalla schiettezza. Mi sembrava di avvertirlo in tutto e per tutto, ogni volta lo cercavo quasi. D’altra parte la mia ingenuità... era un limite e anche un male. Ma questo lo seppi tardi e forse non lo capii nemmeno del tutto, non era solo ingenuità, tutto il mio universo si perdeva in poche immagini e pensieri, che accarezzavo in continuazione e cercavo nutrimento là dove c’era solo un’enorme distesa di futilità. E Clara mi aveva avvertito, in una delle sue lunghe dissertazioni sulla famiglia, la religione e la Chiesa costituita, e talvolta anche la guerra. “Tieni gli occhi aperti, per carità di dio, anche quando l’istinto te li farà tenere bassi, sarebbe una perdita di tempo, mi capisci?”, io annuivo contenta, perché le sue lezioni mi incuriosivano più che altro, le reputavo ”divine” proprio come lei. Che donna! così forte e remissiva ad un tempo -questo per me era l’eccellente-, moderata e sopra le parti... rumorosa e silente.
Mi ascoltava e mi parlava in modi del tutto speciali, talvolta quasi fossi un feto nel suo grembo -e quanto avrei voluto esserlo!-, talaltra come fossi matura. La volevo come madre, poi no, come sorella, o amica, o stella cometa. Impossibile scegliere.
Per avvicinarla sempre di più avevo cominciato da qualche anno a sommergerla di domande, prima sui fatti del mondo, estranei alla sua persona in particolare: le chiedevo consigli sulle scelte da fare in ambito scolastico o quando bisticciavo con mia sorella, a volte stavamo ore a parlare di tutti i posti che aveva visitato prima della guerra e della venuta di Franz. Mi descriveva Il Cairo e Hong Kong, poi Londra e Parigi con la cadenza dolce che usa chi racconta favole o misteri e ascoltavo tutto rapita, dimenticando per un attimo le distanze reali fra me e i paesi in cui era stata.
Un giorno le chiesi perché non fosse sposata, lo feci timidamente, tenendo a freno l’impazienza che deriva da una curiosità troppo invadente. Mi disse che aveva avuto un grande amore, tanti anni prima, disse che era un poeta gentiluomo, bello e anche un pochino stravagante. Voleva sposarlo, ma ahimè, era morto di tubercolosi, si era spento in fretta... come il dolore di lei, fortunatamente. Era tornata a vivere viaggiando, rendendosi indipendente e amando la propria vita solitaria. Ma vedi, aveva aggiunto un po’ triste, all’improvviso mi sono scoperta priva di senso, sola com’ero. “...per questo Franz?” avevo chiesto io. Sì, era per quel motivo, sentiva che non poteva amarsi abbastanza, così come stavano le cose. E a un certo punto ci si stanca di viaggiare, sai? soprattutto se non c’è nessuno a cui raccontare. Me ne sono accorta quando le valigie si sono fatte sempre più pesanti e sono venuta subito qui, ero a Rodi in quei giorni. Me ne sono stata buona per un mese intero (credo che tu ricorderai) per comprendere la mia crisi. Questo posto (ricordo che respirò un paio di volte), questo posto ha il potere di insegnare a sciogliere i nodi, è una strana malia di cui non dubito mai. Mi consigliò di fare lo stesso quando fosse capitato a me, l’eventualità mi sembrava remota, certo, ma cominciai a vedere la vecchia casa di villeggiatura come un porto sicuro, come un letto caldo dove rannicchiarmi beata. Un’urna molle e segreta.
Parlare con lei, vedendola così partecipe ad ogni discorso, riempiva i “buchi” che la mamma lasciava con la sua distrazione. Fantasticavo anche su di lei, immaginavo il suo unico amore morto tanto giovane, come un uomo eccellente perfettamente appropriato a lei, non già troppo principesco, ma neppure realistico. Rimaneva una figura sospesa. E privilegiata, perché era stata scaldata dall’amore esclusivo di Clara, che proprio perché interrotto, acquistava grandezza. L’unico altro uomo per lei era stato Franz. Quando mi soffermavo a pensarci rabbrividivo di emozione.

Ce ne stavamo tutti e quattro all’ombra, io mia sorella Margherita, papà e Clara. Nel giardino della casa di villeggiatura, in mezzo al vento e alle ultime farfalle bianche.
Franz a un certo punto uscì di casa correndo. Mi tolse il libro dalle mani e mi tirò in piedi. Protestai, ma senza risultato.
“Smettila, smettila Franz!”.
“Vieni, vieni con me, sbrigati. Voglio farti vedere una cosa.”
Scenderemo per il sentiero oltre la legnaia, nel giardino sottostante. Era stretto e anche ripido, si doveva passare accanto agli alveari che quel giorno erano stranamente in subbuglio, proprio come Franz. Lo vedevo agitato, rideva fra sé e sé inspiegabilmente. Poche volte si faceva vedere così dagli altri. Capii che c’era qualcosa che lo eccitava particolarmente, tuttavia non sapevo ancora se una sua propria intuizione o cos’altro. Quando arrivammo sullo spiazzo erboso si fermò di scatto, mi prese le mani, aveva gli occhi colorati da una luce vivida di fervore. Arrossii.
“E’ un’evento! E’ un segreto, va bene? Ce lo terremo per noi. Gustavo... sta... sta togliendo il miele dalle celle delle api! Tu lo sai, ogni estate lo fa, ma nessuno sa esattamente quando, perché è un rito che deve essere consumato in solitudine, per lui. Qualche sera fa però sono andato da lui e ho suonato un po’ il vecchio pianoforte che c’è in casa sua -e Dio solo sa da quanto non viene utilizzato-. Così, per ringraziarmi, mi ha invitato ad assistere al... alla festa, come dice lui. Capisci? Capisci che privilegio? Capisci quale meraviglia? E’ come se un poeta ti permettesse di guardarlo mentre scrive e ti leggesse poi i suoi versi, allietandoti lo spirito e il corpo. La poesia e il miele hanno la stessa dolcissima origine e l’uomo non è che tramite. In un caso tra l’infinito e la parola, nell’altro fra natura e nettare. Non sei felice? Non lo sei? O ti prego, devi, devi esserlo. “Tacque e si ricompose, io ero frastornata a dir poco, ma sorridevo perché le sue parole avevano una melodia intima anche nell’eccitazione del momento. “Ma, silenzio, il silenzio è di rigore, altrimenti, diamine, si rovinerebbe tutto.”
“Va bene, Franz.”
Così, in punta di piedi entrammo nella capanna dove si stava compiendo il rito. Gustavo, che era il giardiniere e in sostanza colui che si occupava della casa quando non c’era nessuno ad abitarci, stava in piedi di fronte ad uno strano marchingegno, molto artigianale per altro. L’arnese era un ampio cilindro in cui i telai venivano inseriti verticalmente, sostenuti da una struttura collegata esternamente a una manovella e grazie alla forza centrifuga il miele si depositava sulle pareti del cilindro, da cui fuoriusciva in una bacinella a mezzo di un tubo di plastica. Trovai il tutto bizzarro, probabilmente perché non avevo mai immaginato in che modo il miele potesse venire estratto dalle celle.
Il locale era buio, immerso in una strana quiete, interrotta dal rumore della “centrifuga” e dal ronzio di qualche ape golosa che era riuscita a entrare. Vidi su un tavolo quattro bacinelle colme di miele che esalavano insieme ai telai un immenso aroma di bosco, natura, aria, fiori. Era il profumo del miele. C’era poi un quinto secchio contenente dei pezzi di cera d’api intrisi di nettare, mi chiedevo cosa potessero essere. Rimanemmo in piedi per più di un’ora credo, di tanto in tanto dovevo fare attenzione che nessun’ape si impigliasse nei miei capelli. Fu bellissimo. Franz mi prendeva una mano e mi indicava oggetti buffi, inverosimili, ridevamo assieme tacitamente. Era un incanto quella capanna in ombra trafitta dagli ultimi raggi di sole prima del tramonto.
Ad un certo punto Gustavo ci guardò -per tutto il tempo si era comportato come se fosse stato solo, tanto che mi chiesi se lo pensasse davvero- e fece “Per oggi ho finito, eh, eh, come primo giorno non c’è male, non c’è male. Che ne dite?”. Franz rispose “Sì, mi è piaciuto tutto quello che ho visto e sentito. Sembri uno stregone.” “Accipicchia! Bè, ragazzi, può darsi che lo sono, ah, ah! Eppure è una faticaccia. Questo lavoro lo faccio tutti gli anni verso la fine di agosto, mi piace, lo devo ammettere. Mi piacciono le api. Ah, ma una volta, una volta, ne avevamo tantissime di più. E poi, a poco a poco, se ne sono andate o sono morte, boh. Accipicchia se ne avevamo, da non crederci.”
Sorrideva fra sé, lieto della rievocazione del passato, Era una figura interessante, non c’è che dire, lo era sempre stato. Poi all’improvviso si risvegliò dal suo sogno e disse “Comunque, se sapevo che veniva anche la signorina mettevo un po’ di ordine in più... sapete com’è, è un lavoraccio e questo è il massimo dell’ordine che ci può essere. Comunque. Ah, adesso viene il bello per voi, e anche per me. Vi faccio provare una cosa buonissima, eh, da non crederci, che mi sa tanto che non avete mai assaggiato. No.” si diresse verso il tavolo, indicò i pezzi di cera d’api aprendo la bocca in un largo sorriso che mostrava i suoi denti un po’ precari. “Prendete un pezzo e succhiate”.
“Che cos’è, voglio dire, da dove sono ricavati?”
“Bè, mica si può pretendere che le api riempiano con precisione i telai, queste sono praticamente le coperture dei telai fatti dalle api, sono di cera no, e il miele ci è scappato dentro. Allora io, prima di mettere tutto nella centrifuga li levo con un cortello. Tutto qua. Ma, oh, dai, prendete, prendete!”
Guardai Franz per vedere cosa facesse, era deciso, ne prese due pezzi e me ne porse uno incoraggiandomi.
Lo afferrai cercando di non far colare il miele e lo portai alla bocca continuando a guardarlo. Percepivo l’odore acre e dolce a un tempo, chiusi gli occhi e feci scivolare il nettare sulle labbra, incontrò la lingua, poi, giù, inondò della sua fragranza il palato. Una sensazione di tepore mi investì, mentre in piedi, ferma, con i sensi concentrati a cogliere quella danza morbida di gusti e profumi, cominciai a succhiare la cera, intrisa anch’essa di un’ineffabile dolcezza. Oh, meraviglia!
Uno strano silenzio nasceva dal dipanarsi del succo divino nel mio corpo e fui presa da un torpore inatteso e dimenticai persino di respirare. Stavo vivendo un confuso stato di oblio, in cui i miei pensieri, sparsi e difficili, si sopivano a poco a poco, nuotando nell’aria nella stanza tra i raggi la polvere il palato. E in quel profondo silenzio la natura parlò nella mia bocca.
Quello era il dono di amore dell’ape, del polline del fiore, della terra fertile, dell’acqua e del sole. Nessuno, nessuno, nessun oggetto umano aveva mai sfiorato le gocce più intime della linfa che ora mi rapiva. Una parte di me era cambiata.
Quello era il dono di amore dell’intero universo.

Stupiti e attoniti, io più di Franz, ripercorremmo il tragitto fatto qualche ora prima. Tutt’intorno il mondo si schiudeva ai colori del tramonto e un’aria nuova investiva la campagna. Era un velo sottile che passava su tutto, scandiva il ritmo del cosmo, così sopiva piano piano la voce delle cicale e apriva il sipario alla gran festa dei grilli. Le ombre si allungavano sbadigliando. Si sentiva lo scrosciare delle cascatelle del fiume intonarsi al tremolio delle fronde, presto casa di uccelli notturni. Ma ogni particolare sembra aver acquistato una diversa ragione d’essere, il petalo e il sasso, l’ape, il cielo, il contorno degli alberi.
Franz si volse di scatto e mi accarezzò i capelli con mano sicura -sfiorò il collo- e continuò a camminare. Non sapevo come muovere gli occhi, e nemmeno il cuore, persa com’ero in una specie di illuminazione panteistica. Era una nuova visione.
Ci ritrovammo indolenti e vulnerabili nel giardino superiore, guardammo l’uno negli occhi dell’altra per riconoscerci con sicurezza, ma non avemmo il tempo di decidere se parlare o pensare che la voce della mamma ci risvegliò crudele.
“Correte, ragazzi, correte!”, gridava gaia, vidi che aveva le guance umide di pianto, così cominciai a preoccuparmi. Capii subito che era allegria, un’allegria che tuttavia le era estranea; lei, così eterea e sottile, raramente trovava una propria dimensione negli spazi umani -sia in quelli reali che in quelli logici-. Qualcosa evidentemente era accaduto, qualcosa di straordinario.
“Che succede?”
“Clara, oh... mi manca il fiato!” si portò una mano al petto e con l’altra asciugò una lacrima neonata, “Clara si sposa!”.
Basita e immobile, me ne stavo seduta appena prima del bosco, su un grande spiazzo erboso incolto, leggermente in pendenza. Accoglievo tutto ciò che la natura mi mandava, le prime zanzare e l’umidità della terra, come se fossero parte dei miei stessi pensieri, senza dubbio c’era la stessa lentezza e in un certo senso predestinazione. “Che importa con chi? Poco, pochissimo anzi. Un macellaio o un ufficiale, o un ladro anche, o un maestro, un pittore, un politico. Che il suo animo sia alto, che sia colto, o che non sappia pronunciare una frase che non sia una, non fa differenza.” così pensavo, tra la desolazione e una tristezza che non potevo esprimere. Tenevo gli occhi fissi sulle mie mani, che ogni tanto facevo muovere, per avere, almeno un poco, la percezione di me di quell’attimo. Volevo sentirmi ancora reale, ma non solo, io dovevo sentirmi concreta. Franz venne a cercarmi, come prevedevo. Si sedette accanto a me, lamentandosi per il freddo che la sera stava portando. Respirava affannosamente. Mi piaceva ascoltare il suo silenzio, per un attimo aveva allontanato la desolazione.
“E’ stato sciocco andare via così. Clara è rimasta pietrificata, non si dà pace, sai?” disse, desiderava che parlassi e che svolgessi in qualche modo la mia inquietudine. “Se non vuoi parlare con me rimarrai qui tutta la notte, non hai altro modo. Non puoi suonare, o remare, o correre a perdifiato. Potresti scrivere, ma non lo farai.” ricominciò “Il tempo passa e una notte si spegne in fretta. Cosa sarai domani?”
“Vorresti per favore smetterla con questa cantilena?”, la verità era che io mi sentivo in diritto assoluto di non chiedermi nulla riguardo al domani, aggrappandomi stretta e disperata a quella sorta di spazio atemporale che si andava creando intorno a me. L’uomo è vittima dei propri dolori, poiché essi poche volte abbandonano l’irrazionalità. E forse è ancora più vittima dell’incapacità di contenere l’orgoglio di fronte alla delusione.
“La smetto, certo, resta il fatto che dovrai parlare prima o poi. Dannazione! Io sono qua adesso, capito? L’occasione è adesso. “Va bene, con calma, dimmi solo se ti senti ferita.”
Rimasi un attimo ancora in silenzio. “Io... Franz, è come se mi avesse ingannato. Io non capisco perché adesso, perché all’improvviso. Abbiamo parlato talmente tanto io e lei che mi sembra impossibile che abbia tralasciato di dirmi che ha un uomo. ...un uomo poi! Ma che cosa se ne fa lei d un marito?”
Il ragazzo rise. “Santo cielo, ma come puoi essere così? Clara è innamorata. Le persone per essere felici necessitano di un interlocutore sempre presente, la diade è fondamentale.”
“Ma sei tu, il suo amore. Lei sei anni fa ha deciso di vivere per e con te! Non certo con un uomo. Diceva che un amore nella sua vita c’era stato e sarebbe stato l’unico,”
“Sono passati quarant’anni...”
“E allora? Quel che è detto è detto e dovresti sentirti tradito anche tu. Tenerti così all’oscuro di tutto.”
“Io lo sapevo e ne sono stato felice come lo sono ora. Tu non accetti perché non capisci quale sentimento sublime e ineludibile stia provando, giacché non ami nessuno al mondo.”
Fu come uno schiaffo in pieno viso, fu umiliante. Avvampò in me la fiamma di una rabbia che non avevo mai provato, mi misi ad urlare “Che cosa? Io amo tutti! Tutti, stupido stupido ragazzo. Vattene! Vattene! Ti odio quando sei così e lasci che la tua presunzione parli. “Appoggiai il viso sulle ginocchia cingendomi il capo con le braccia per non mostrare il rossore.
“Ma di cosa hai paura? Chieditelo una buona volta. Hai paura della precarietà e non capisci che è l’unica condizione che possiamo mai conoscere. Hai paura del futuro, di tutto, della radio, del cinema, dell’automobile e persino del treno! Dannazione.”
“Franz, perché mi dici queste cose?”
“Lo so che non è facile ammetterlo, anzi, non lo so, ma forse lo immagino. La verità -e prova a pensarci seriamente- è che niente ti ha davvero attraversato lo spirito. Ti affezioni e basta. Non aneli, non trepidi... vivi in una cupa pace dei sensi e anche del cuore in parte.” Mi parlava lentamente, e riuscì a calmarmi, regalandomi contemporaneamente una nuova intuizione. Alzai il volto, in attesa. “Vedi, io credo che l’amore sia come la musica che mi ha fatto sopravvivere nel ricordo e vivere nella sostanza. E’ come il miele che ha in sé i caratteri della natura illimitata e insieme quelli della finitezza della vista, del tatto... è idea e forma. Come quando ti ho toccato i capelli oggi, era il sentimento che si svolgeva in gesto materiale. Questo è, per me, e anche per Clara. Come il gusto del miele incontaminato. Atto, poi potenza e infine di nuovo atto.”
“E’ per questo che vi invidio. Per questo non ho difese.”
Lo guardavo smarrita eppure ritrovata, forse gli occhi mi brillavano. Parlò ancora, “Adesso sei più bella, quasi come oggi, nella capanna di Gustavo. Vorrei darti un bacio.”
“Non posso.”
“Lo so, ed è questo il tuo dramma.”
Abbassai lo sguardo e poi subito, percorsa da un fresco brivido sconosciuto, lo rialzai. “Franz, suoneresti per me?”
“Suonerò per te, ma prima voglio sapere una cosa, se sceglierai la vita oppure, ancora una volta il sonno.”
“Dormire, dormire... sognare forse. Non posso più parlare, capisci. Non posso più nemmeno pensare, per ora”, fui presa per un istante dalla musica dei grilli; ancora una volta il mondo mi salutava. “Era molto tempo che aspettavo questo giorno, Franz. Ma vedi, ora mi chiedo... si va sempre solo avanti o sempre solo indietro?”

E mi portò a casa, tenendomi per mano. Attraversammo la sera senza nuvole, né luna, avvolta solo nella propria luce di stelle. E suonò per me per molte ore -ma nessuno protestò-. Quel venerdì di agosto non più troppo caldo ormai, Franz mi fece piangere tutte le lacrime che sino ad allora non avevo pianto, caldissimi cristalli di sofferenza e stanchezza, una stanchezza che riconobbi.
La mattina dopo me ne andai, tornai a casa, sola, e non mi fermarono. Non avrei potuto trascorrere altro tempo all’ombra del fico, ascoltando il tempo che passava vuoto.
Salii risoluta sul treno, senza guardarmi troppo alle spalle. Avevo un po’ di rossetto sulle labbra e una lettera in tasca.

Ti faccio dono
della goccia
che ora tocco.

E tu vorrai! -che cosa?-
Bagnarti il viso,
come fosse un fiume
l’acqua che ti porgo,

andare sola
come fosse strada
il sogno che ti canto.

Franz