Liceo Scientifico "Paolo Frisi" - Monza

Concorso Letterario "Federico Ghibaudo"

"DELIRIO DI UN INNAMORATO TRADITO"
il labirinto

di Matteo Maserati - 5aB




Fu in una solitaria giornata d’ autunno che per la prima volta la Cupa Signora mi fece visita. Sebbene assorto nei miei tristi pensieri la vidi. Avvolta nel suo grigio sudario Ella m’apparve sul far della sera, il bel volto contratto dal muto dolore, lo sguardo deciso bruciante d’ira nascosta. Scostandomi da inutili pensieri di rammarico mi condusse al luogo da cui raramente gli uomini fanno ritorno. Al mio cospetto si stagliò, immenso contro l’orizzonte di fuoco, uno degli innumerevoli ingressi che portano l’uomo a percorrere la via del male. Era scolpito nella stessa materia oscura da cui sorgeva e da secoli era protetto da titanici marmi dalle demoniache fattezze. Essi fissarono con vuoti occhi di ghiaccio colui che da sempre attendevano immoti. Come sedotto da un terribile presagio oltrepassai la soglia millenaria e subito ne fui lontano. Immense pareti si chiusero su di me e il mio lungo cammino ebbe inizio. Proseguendo lungo ignote vie vidi sorgere la luna nel cielo di tenebra e la sua pallida luce gettava fantastiche ombre sulle lucide mura coperte di muschio. Le fui grato, ignaro che il metallico disco, in tutto il suo freddo splendore, avrebbe vegliato su di me più a lungo di quanto pensassi.
Camminavo istintivamente, senza far rumore per il dedalo di vicoli battendo la terra umida con passo leggero.
Lungo la strada solitaria vidi strane rocce scolpite dal vento fremere al mio passaggio e piccoli esseri dai grandi occhi gialli nascondersi nella bizzarra vegetazione. Più volte il paesaggio cambiò intorno a me ma nell’aria restava sempre un cupo sentore d’arcano potere che minacciava di macchiare per sempre la mia anima. A stento trattenni il mio lato più oscuro e recondito. Il tempo strisciava con piedi di piombo e la mia stessa esistenza perse il suo senso. Sette volte il mio corpo patì l’ira bruciante dell’impietoso astro di fuoco e sette volte con la notte malvagia portatrice di incubi un freddo mortale calò fin dentro le mie ossa crepate dal dolore. Fermatomi d’un tratto a riposare le membra inquiete, ripensai a colei che un tempo mi amò e che io ancora amavo e il suo solo ricordo portò conforto al mio cuore impazzito e rabbia al mio spirito affranto. La Cupa Signora tornò allora a farmi visita e mi portò su ali mostruose verso il margine rotto di un buio abisso infinito. Ora la strada era lastricata d’oro e gemme lucenti e pietre preziose screziate d’argento spaccavano il lucido cristallo delle pareti. Miriadi di immagini, rese grottesche dal puro terrore, aggrovigliate e contorte come vive cose dolenti, scorsero davanti ai miei occhi infuocati come un ultimo disperato moto della coscienza, ma io le ricacciai lontano con stolta superbia.
Poi l’ignota Ombra sparì lasciandomi in balia delle mie paure e la mia mente tornò lucida. Un’immensa radura si apriva innaturale davanti a me e il tempo stesso si arrestò in attesa degli eventi.
Al centro del labirinto mi attendeva l’ultima letale tentazione. A lungo camminai per la piana coperta di ossa sotto un bronzeo cielo. Tutto intorno ai cangianti teschi dei morti, beffardi con il loro eterno ghigno, crescevano rigogliosi fiori neri come la notte e ogni contorto stelo pareva un’anima in catene. Mentre blasfeme reliquie divenivano polvere, sotto di me orribili insetti cremisi suggevano il nettare scarlatto dall’immonda campagna. Assaporai il sangue nell’aere denso e i neri fiori si inchinarono al mio passaggio sussurrando nel vento pestilenziale indicibili lusinghe.
L’urlo agghiacciante di un demone lontano raggiunse le mie sorde orecchie ed il suono di tormentate risa rifluì nel passato e fu inghiottito da un innaturale silenzio.
Fu allora che giunsi all’Albero delle Ombre Dannate.
Anime un tempo viventi furono appese ai suoi rami e nutrirono le sue radici in tempi remoti. Torcendosi dal dolore della loro traviata lealtà le Ombre fecero la loro alleanza e ora godevano la triste ricompensa. Quelle strane ombre piangevano il proprio pentimento e urlavano in agonia. Esse danzavano, simili a folli fantocci dalle mobili maschere, implorando pietà da ogni ramo.
Tutte, tranne quella di cui incontrai il deviato e consapevole sguardo. Mi fermai alla luce di quei saggi occhi lattiginosi. L’albero stesso parlò con voce scheggiata e con lui mille voci s’udirono sorgere dalle aride gole dei Dannati.
-Con fede rotta e amare promesse un uomo vaga per il Giardino del Sangue. Una volta che le mie radici assaggiano il suo corpo mortale egli è mio ed io sono lui. Un uomo... Un uomo... Sarò libero nella carne e nelle ossa. Ucciderò per te mio signore. Liberami da questa lignea forma e ancora una volta potrò sentir battere il mio cuore portando il seme del male per i campi del mondo.-
Un ennesimo avventato passo mi accostò alla più totale perdizione. La mia mente in un soffio rivide scene di vita passata e proprio allora scorsi l’angelico viso di lei, splendido seppur traditore.
L’Albero scosse i suoi neri rami ferrigni ma io fuggii, lontano, perché il mio fato non era quello di un’orribile anima prigioniera, ma di uno spirito immortale reso tale dal costante vagare per le spire dell’inconcepibile labirinto della sua mente; corrotto dalla sua stessa Disperazione ma guidato verso la salvezza dall’amore.