Liceo Scientifico "Paolo Frisi" - Monza |
Fu in una solitaria giornata d’ autunno che per la prima volta la Cupa Signora mi
fece visita. Sebbene assorto nei miei tristi pensieri la vidi. Avvolta nel suo grigio
sudario Ella m’apparve sul far della sera, il bel volto contratto dal muto dolore, lo
sguardo deciso bruciante d’ira nascosta. Scostandomi da inutili pensieri di rammarico
mi condusse al luogo da cui raramente gli uomini fanno ritorno. Al mio cospetto si
stagliò, immenso contro l’orizzonte di fuoco, uno degli innumerevoli ingressi che
portano l’uomo a percorrere la via del male. Era scolpito nella stessa materia oscura da
cui sorgeva e da secoli era protetto da titanici marmi dalle demoniache fattezze. Essi
fissarono con vuoti occhi di ghiaccio colui che da sempre attendevano immoti. Come
sedotto da un terribile presagio oltrepassai la soglia millenaria e subito ne fui lontano.
Immense pareti si chiusero su di me e il mio lungo cammino ebbe inizio. Proseguendo
lungo ignote vie vidi sorgere la luna nel cielo di tenebra e la sua pallida luce gettava
fantastiche ombre sulle lucide mura coperte di muschio. Le fui grato, ignaro che il
metallico disco, in tutto il suo freddo splendore, avrebbe vegliato su di me più a lungo
di quanto pensassi.
Camminavo istintivamente, senza far rumore per il dedalo di vicoli battendo la
terra umida con passo leggero.
Lungo la strada solitaria vidi strane rocce scolpite dal vento fremere al mio
passaggio e piccoli esseri dai grandi occhi gialli nascondersi nella bizzarra vegetazione.
Più volte il paesaggio cambiò intorno a me ma nell’aria restava sempre un cupo sentore
d’arcano potere che minacciava di macchiare per sempre la mia anima. A stento
trattenni il mio lato più oscuro e recondito. Il tempo strisciava con piedi di piombo e la
mia stessa esistenza perse il suo senso. Sette volte il mio corpo patì l’ira bruciante
dell’impietoso astro di fuoco e sette volte con la notte malvagia portatrice di incubi un
freddo mortale calò fin dentro le mie ossa crepate dal dolore. Fermatomi d’un tratto a
riposare le membra inquiete, ripensai a colei che un tempo mi amò e che io ancora
amavo e il suo solo ricordo portò conforto al mio cuore impazzito e rabbia al mio
spirito affranto. La Cupa Signora tornò allora a farmi visita e mi portò su ali mostruose
verso il margine rotto di un buio abisso infinito. Ora la strada era lastricata d’oro e
gemme lucenti e pietre preziose screziate d’argento spaccavano il lucido cristallo delle
pareti. Miriadi di immagini, rese grottesche dal puro terrore, aggrovigliate e contorte
come vive cose dolenti, scorsero davanti ai miei occhi infuocati come un ultimo
disperato moto della coscienza, ma io le ricacciai lontano con stolta superbia.
Poi l’ignota Ombra sparì lasciandomi in balia delle mie paure e la mia mente tornò
lucida. Un’immensa radura si apriva innaturale davanti a me e il tempo stesso si arrestò
in attesa degli eventi.
Al centro del labirinto mi attendeva l’ultima letale tentazione. A lungo camminai
per la piana coperta di ossa sotto un bronzeo cielo. Tutto intorno ai cangianti teschi dei
morti, beffardi con il loro eterno ghigno, crescevano rigogliosi fiori neri come la notte e
ogni contorto stelo pareva un’anima in catene. Mentre blasfeme reliquie divenivano
polvere, sotto di me orribili insetti cremisi suggevano il nettare scarlatto dall’immonda
campagna. Assaporai il sangue nell’aere denso e i neri fiori si inchinarono al mio
passaggio sussurrando nel vento pestilenziale indicibili lusinghe.
L’urlo agghiacciante di un demone lontano raggiunse le mie sorde orecchie ed il
suono di tormentate risa rifluì nel passato e fu inghiottito da un innaturale silenzio.
Fu allora che giunsi all’Albero delle Ombre Dannate.
Anime un tempo viventi furono appese ai suoi rami e nutrirono le sue radici in
tempi remoti. Torcendosi dal dolore della loro traviata lealtà le Ombre fecero la loro
alleanza e ora godevano la triste ricompensa. Quelle strane ombre piangevano il
proprio pentimento e urlavano in agonia. Esse danzavano, simili a folli fantocci dalle
mobili maschere, implorando pietà da ogni ramo.
Tutte, tranne quella di cui incontrai il deviato e consapevole sguardo. Mi fermai
alla luce di quei saggi occhi lattiginosi. L’albero stesso parlò con voce scheggiata e con
lui mille voci s’udirono sorgere dalle aride gole dei Dannati.
-Con fede rotta e amare promesse un uomo vaga per il Giardino del Sangue. Una
volta che le mie radici assaggiano il suo corpo mortale egli è mio ed io sono lui. Un
uomo... Un uomo... Sarò libero nella carne e nelle ossa. Ucciderò per te mio signore.
Liberami da questa lignea forma e ancora una volta potrò sentir battere il mio cuore
portando il seme del male per i campi del mondo.-
Un ennesimo avventato passo mi accostò alla più totale perdizione. La mia mente
in un soffio rivide scene di vita passata e proprio allora scorsi l’angelico viso di lei,
splendido seppur traditore.
L’Albero scosse i suoi neri rami ferrigni ma io fuggii, lontano, perché il mio fato non
era quello di un’orribile anima prigioniera, ma di uno spirito immortale reso tale dal
costante vagare per le spire dell’inconcepibile labirinto della sua mente; corrotto dalla
sua stessa Disperazione ma guidato verso la salvezza dall’amore.