Liceo Scientifico "Paolo Frisi" - Monza

Premio Letterario "Federico Ghibaudo"

“LA DANZA DEI FOLLETTI”

di Giorgia Di Tolle - 2aD


Il silenzio mi avvolge, sono sola in questa stanza semibuia, aspettando ormai solo il sorgere del sole. Notte in bianco, notte di pensieri. E’ stata lunga, lunga e dannatamente dolorosa. Ci sono stati momenti in cui ho avuto veramente paura, anche se so bene che le cose non cambieranno, né in un senso, né nell’altro.
E’ un freddo ospedale dalle pareti tinte di azzurro, di giorno così strano: azzurro fuori, azzurro dentro, è come essere tra le nuvole, nuvole bianche di letti e lenzuola pulite. Poi però il cielo si mischia al prato perché tra le nuvole ci sono i fiori, i malati, con i loro pigiami multicolore che confondono gli elementi. Il reparto rianimazione è però diverso dal resto, tutto bianco, fa quasi paura a confronto, è come l’anticamera dell’obitorio. E’ strano come il bianco alle volte possa sembrare così freddo. Guardo il suo viso ancora perfetto, dormiente, illuminato da una flebile lampada e dalle lucine dei macchinari, e ripenso a quando l’ho conosciuto. Com’era bello stagliato contro il sole d’agosto! In riva al mare, così pieno di vita, mi ha guardato e sorriso, infine si è seduto accanto a me ed è stato lì che è iniziato tutto...
Sono qui seduta al suo fianco, anche se so che non dovrei esserci. Non ci siamo lasciati molto bene. Negli ultimi tempi parlavamo sempre di meno, lui continuava a frequentare quegli stupidi del suo quartiere, “Tanto per divertirmi” diceva, ma in realtà si lasciava parecchio condizionare. Con loro passava interi pomeriggi in autodromo sulle moto e intere notti in stazione a fare pezzi, la sua arte di pittore impressionista prostituita alla cultura hip-hop, di cui nemmeno sapeva nulla. Gli bastava disegnare, e fare il figo.
Ricordo quando mi chiese di dipingermi. Eravamo in Villa, io sdraiata su un tronco d’albero, lui seduto sul prato con in grembo il suo blocco. “Devi fare una cosa per me, giura che lo farai, morrò se ti rifiuti”. I suoi occhi mi guardavano brillanti, vivi. “Non muoverti” proseguì “devo dipingerti”.
“Coosa?! Oh no, mai, mi vergogno, trovati un albero, non sono il tipo... “
“Il tipo per cosa? Non si tratta di te, si tratta di me! Ora che ti vedo lì, così, con addosso la luce del mattino, vedo un universo di fate e di folletti, vedo la materia dei sogni, vedo me stesso. Devo dipingerti, devo”.
La sera dell’incidente litigammo perché io non volevo che andasse, lo trovavo stupido. Quanto mi secca avere sempre ragione. Quelli che avrebbero dovuto essere i suoi amici non si sono fatti vedere qui, ovvio. Ipocriti. Ma io dovevo esserci, se non altro per dimostrargli il mio affetto e la mia gratitudine. Lui mi ha iniziata alla vita, lo devo a lui se ora sono fatta di anima e cuore e non sono un’automa di tacchi e rossetto come le altre ragazze. Prima che ci incontrassimo ero solo un altro volto tra la folla, un bel faccino fatto di fondotinta e mascara, dal corpo stretto in minigonne ipershic e maglie firmate. Il mondo era un’ostrica e io solo un’altra figlia di papà chiusa in una sfera di cristallo.
Poi è arrivato l’inverno, la scuola, l’autogestione e che sorpresa ritrovarmi la buffa farfalla del mare in cattedra a tuonare contro Berlinguer! Eppure era proprio lui. Che differenza tra il costume da bagno e i vestiti trasandati che indossava, lo preferivo in versione estiva. Ma poi ha parlato, e non erano i soliti giochi marini o i discorsi prefabbricati d’autogesta, parlava di dignità, d’uguaglianza, di musica, cinema, pittura e poesia; era magico. Alla fine andai a salutarlo. Era contento di vedermi, ma anche lui rimase sorpreso dal mio “stile di vita”. Disse che la sua missione era aprirmi gli occhi oltre il mondo del consumismo. “La gente è strana, quando parla alla fine non dice nulla, discorsi prestampati per nascondere se stessi, perché ormai la nostra vera essenza è nascosta anche a noi. O meglio, è sepolta sotto miriadi di mazzi di carte. Gli occhi ingannano. Vedi quei ragazzi camminare, con le loro facce pulite, così carini, così ben vestiti, primi della classe? Bè, non sono altro che mazzi di carte. Ora chiudi gli occhi, cerca solo il tuo cuore. Immaginalo in una stanza buia. Il raggio di sole che lo illuminerà, forse è quel rasta con la faccia da cannaiolo, perché magari in sé cela un universo, non un numero. Bisogna tornare a credere nei folletti”.
Così con la sua voce da pifferaio magico mi portò in giro come un bravo gattino, con lui vidi la gente che curava al servizio civile, vidi i reparti per malati terminali e vidi raggi di sole in punkabbestia pazzoidi. Piano piano mi insegnò a danzare tra le via del mondo, a uscire in compagnia senza preoccuparmi delle apparenze, portando un paio di jeans, un maglione e il mio cervello. “una volta che hai il cervello, hai tutto.” diceva “Personalmente, non starei mai con una ragazza solo per la sua bellezza, poi dovrei passare tutto il tempo ad ammirarla con le orecchie tappate per non sentire le sciocchezze che dice! Età, abiti, non conta niente di tutto questo, solo il cervello... e il cuore, ovviamente. Siamo uomini, non robot. Una volta che hai queste due cose, hai tutto...” Guardò il blocco “Bè, a volte poi servono dei supporti...”
Mi mostrò i suoi disegni quel giorno, musica e anima della sue parole, visioni sublimi, dritte dal cuore. Sono fiera di essere parte di essi.
Sono qui in questa fredda stanza, mentre fuori avanza forse l’aurora, e mi chiedo cosa posso fare per lui. Semplicemente avrei dovuto salvarlo dalla sua nuova compagnia di spericolati, ma come si fa a redarguire il proprio maestro? Si pensa sempre sia invulnerabile, perfetto. E invece una volta istruito il suo gattino volle esplorare nuovi orizzonti, perché lui è così, in moto perpetuo. Ma questa volta ha rischiato troppo.
Non può, non deve andarsene, lui diceva “La vita è un dono. Non c’è un giorno uguale a un altro. Ogni volta che il sole tramonta assistiamo a un cambiamento e ogni cambiamento significa opportunità. Perciò ogni giorno vale la pena essere vissuto, vissuto tenendo le orecchie per sentire dove va il vento. Ogni giorno va in una direzione diversa. Sennò perché ogni tramonto è differente?”
Non può finire qui, in quest’anticamera d’obitorio e con questo insopportabile ronzio, con me sola al suo fianco. Quando succederà dovrà essere tra le persone che ama, nel suo “studio” tra i suoi dipinti, i “frammenti della sua anima”.
Fuori albeggia, il sole risale lentamente sciogliendo il buio, arrampicandosi pian piano sui tetti dei condomini e poi su, su in alto a colorare il mondo. E’ una giornata fantastica: è solo aprile, ma sembra già estate: alberi in fiore, api al lavoro ma soprattutto gente in strada, ogni genere, compagnie attratte fuori dal sole e dalla pigrizia delle vacanze di pasqua, anteprima del giugno a venire. E’ tutt’una risata, un allegro kazzeggio.
Non può perdersi un periodo come questo, lui che vive in perenne attesa della prossima estate e “d’estate in attesa del natale. Si vive sempre aspettando qualcosa, colora la vita, rende la gioia inaspettata e quindi ancora più grande perché quando mai ci si diverte quando si aspetta?”
Guardo il sole caldo, sereno, pacificatore, filtra luce e torpore attraverso le finestre. Troppa quiete perché accada qualcosa, i macchinari frignano calmi, come sempre. Il dottore entra con fare di gentile professionalità, dà uno sguardo al mio viso stravolto. “Un pochino meglio forse, può farcela”. Accenna un sorriso e sparisce fra le corsie, come di routine. Piano piano i miei occhi si fanno sedurre dal sonno, sconvolti da così tanta luce, dal caldo e dalle risa che cullano l’oblio. Non accadrà niente se dormo un po’. Andrà tutto bene. Sono in attesa. Nessuno lascia le cose a metà e la nostra è una storia a metà. Devo dirgli che ho visto danzare i folletti sulle sue lenzuola stanotte, che è il mio raggio di sole, che lo amo, che...