Liceo Scientifico "Paolo Frisi" - Monza

Premio Letterario "Federico Ghibaudo"
Premio Speciale Giuria

“IL PORTO SEPOLTO”
ovvero lo straordinario

di Elisabetta Valcamonica - 3aG


IL PORTO SEPOLTO

Vi arriva il poeta
e poi torna alla luce con i suoi canti
e li disperde

Di questa poesia
mi resta
quel nulla
d’inesauribile segreto

G.Ungaretti


Il Poeta camminava lungo la via deserta, attraverso l’aria fredda e ancora buia d’un mattino d’arido inverno. Le foglie sulle strade erano monumenti di brina gelata.
Soltanto un grosso merlo dal becco giallo saltellava infreddolito nell’aiuola di ghiaccio. Era l’unico segno di vita. Tutt’intorno era silenzio, come se la notte avesse ammutolito la Terra, come se avesse fermato col suo alito di vento una musica lontana... ed ora il Poeta poteva sentire quella musica interrotta, poteva sentirne la magia, e ascoltava in quel silenzio la voce di mille parole che gli portavano un canto fatato dentro al cuore, un canto che penetrava sotto i suoi vestiti pesanti e gli purificava i pensieri, scacciava il dolore, scacciava un’idea insistente, un’idea malvagia, un’idea insensata.
Non avrebbe più scritto.
Ne aveva già avuto la tentazione, ma non l’aveva mai fatto. Non se la sentiva di chiudere per sempre il suo quaderno, non poteva impedire alle emozioni d’acquistare quella forma, anche se difficile da ottenere e dolorosa da cercare. Non ci riusciva.
Ma che importava, in fondo? Cosa gli dava la poesia?
Forse era solo un capriccio, una cosa da bambini. Ma lui faceva sul serio, scriveva sul serio. Non contava proprio nulla questo?
Da un po’ di tempo si sentiva come uno straniero in quel mondo che lui stesso aveva creato.
Era come se gli si stesse rivoltando contro e stesse acquistando realtà autonoma, indipendente.
Si sentiva tradito. Aveva cominciato a scrivere quasi per gioco, ma lentamente aveva compiuto il percorso della consapevolezza, che lo aveva portato ad attribuire alle parole quel giusto significato di rivelazione. A fatica si accorse che esse conferivano ai sui occhi uno sguardo nuovo, liberandoli dai confini che prima lo tenevano prigioniero. Aveva imparato a trattare con rispetto le parole.
Aveva capito che ne andava della vita.
E così molte volta lasciava che fossero le lacrime a scendere sulla pagina e dettare le parole; altre volte invece gli bastava guardare fuori dalla finestra, e allora erano il sole, la pioggia e le nubi, le piante ed i passeri ad evocare i pensieri. A volte le immagini nascevano inaspettate, e persino lui se ne stupiva. Tutte le volte scopriva qualcosa di nuovo. Ma nonostante questo, sapeva dare il giusto peso alle parole.
Eppure non avrebbe più scritto.
Quella mattina cercava di allontanarne l’idea, ma non era affatto facile. Camminava lungo la via deserta, e cercava di svuotare la mente, paradossalmente per non sentirsi più solo.
Si chinò, e prese tra le mani una delle foglie ghiacciate. Era perfetta, perfetta nei suoi piccoli cristalli di brina. Ed era per lui, solo per lui. Soltanto lui che l’aveva fra le mani poteva godere di quella sua strabiliante perfezione. Il resto del Mondo dormiva ancora. Era troppo presto. In cielo c’era ancora la luna...

...è quasi luna piena, sempre là, sempre serena,
oppure anche lei piange quest’altalena
in cui un giorno ridi e un giorno piangi,
ti sdrai, ti alzi in piedi, ti chiedi perché mangi...

...sì, le immagini nascevano improvvise, imprimevano le emozioni nel cuore, vi rimanevano come semi e germogliavano in silenzio, coltivati con cura e con amore dal Poeta solitario. I fiori che nascevano erano quegli attimi che venivano fissati eterni sul foglio bianco, che poi lui coglieva, e donava a persone speciali.
Quella mattina continuava ad avanzare con in mano la foglia. Più la toccava, più la stringeva, più la sentiva sua, più lei si scioglieva, tornava ad essere una foglia come tutte le altre, una comune foglia d’albero che l’inverno aveva addormentato.
Il Poeta sospirò, e la lasciò scivolare tra le dita. Così non era più una foglia speciale. Era una semplice foglia. Era sparito l’incanto della brina; l’aveva fatto sparire lui, col calore delle sue mani.
La foglia cadde sul marciapiede. Il poeta la salutò, un po’ deluso.
In quel momento un gatto attraversò la strada. Un gatto nero. Fissò il Poeta, poi si voltò, quindi si inoltrò nella siepe.
Il Poeta sorrise, quasi d’istinto, ma subito un’immagine gli balenò nella mente, e il sorriso, intimorito, si spense, scappò dalle sue labbra.

...non ho guardato gli occhi di quel cane
morto sul ciglio della strada,
perché l’aria era troppo buia,
e la terra troppo fredda...

Cominciava ad albeggiare; il cielo si era tinto di rosso e d’un turchese intenso, in qualche modo spettrale. Il sole era lontano. Lui non lo vedeva. Quei palazzi impedivano al suo sguardo di volare oltre i confini del cielo e vedere sorgere la fonte della vita.
Un passero spaurito saltellò ai suoi piedi. Si ricordò di maggio, di quando gli uccellini imparano a volare, e i più deboli muoiono. Muoiono imparando a volare. O imparano a volare morendo.
Lui raccoglieva i loro corpi ancora senza piume e li sotterrava nella terra del suo giardino, così che i gatti non ci giocassero o i passanti non li osservassero con disgusto. Li seppelliva. Li nascondeva nel profondo del Mondo, per conservarne il segreto, per mantenere il mistero della loro tragica morte nel disperato tentativo di levarsi in volo.
Ogni tanto capitava che qualcuno di loro entrasse dalle sue finestre e non riuscisse più ad uscire. Il Poeta lo prendeva tra le mani, lo sentiva tremante, delicato, poi lo appoggiava sul davanzale e lo ammirava mentre si librava nel cielo...

...ho visto la paura negli occhi di un giovane passero che non riusciva ad alzarsi in volo, la paura di dover rimanere per sempre intrappolato e non poter più parlare con le nuvole...

Ma quella mattina non c’era nulla di tutto ciò. Faceva freddo. Faceva veramente freddo. La terra era ghiacciata. Il sole era troppo debole e non ce la faceva a rompere i taglienti fili dell’aria. Se ne stava timido dietro quel palazzo ed indugiava ad uscire.
Il Poeta si strinse nelle spalle. Erano ormai lontani quei giorni festosi di maggio. Ora era solo. Camminava lungo quella strada silenziosa e non riusciva a svuotare la mente.
Non ce la faceva.
Non avrebbe più scritto.
Cosa sarebbe cambiato? Pensò al Mondo, che è felice lo stesso, lontano dalla poesia. Felice? Ma forse era lui ad essere troppo triste, forse era il suo tentativo di ricerca a renderlo triste. Tanto valeva allora lasciar perdere tutto. La vita sarebbe andata avanti. Quella sera sarebbe tornato a casa, avrebbe ascoltato un po’ di musica, poi sarebbe andato a letto. Niente più poesie, niente più serate alla scrivania, niente più ore buttate. Sospirò. Si guardò intorno con l’aria di chi aveva preso con dolore una decisione tuttavia inevitabile.
Diede un calcio ad un sasso. Questi rotolò per un pezzo lungo la strada, poi urtò qualcosa, e con un rimbalzo cadde in un tombino.
Faceva freddo.
Finalmente un raggio di sole illuminò il volto del Poeta. Non era caldo, ma a lui fece piacere lo stesso.
Aveva detto addio alla poesia. L’aveva lasciata per sempre.
E adesso, per una di quelle strane controversie della mente e del cuore, aveva in testa soltanto quelle parole di Poe...

“...Accetta questo mio bacio sulla tua fronte.
Ed ora che sto per separarmi da te
lascia che ti dica: forse non hai torto
se pensi che tutti i miei giorni
non furono che un sogno in un sogno.
Che importa se la speranza è finita
in una notte o in un giorno,
in una visione o in nessuna?
Non per questo essa è meno finita.
Tutto ciò che vediamo o sembriamo
è solo un sogno in un sogno.

Ora sto fra il muggire delle onde
su una riva tormentata dalla risacca.
Nelle mani stringo i grani d’oro
della sabbia. Solo pochi! Ma come
sfuggono attraverso le mie dita
e cadono nel profondo. Ed io piango.
Io piango, Signore! Non mi è dunque permesso
di stringerli ancora più forte?
Signore, non mi è dunque concesso
di salvarne uno solo dall’onda spietata?
Tutto ciò che vediamo o sembriamo
è solo un sogno in un sogno?...”

Qualche tempo dopo il Poeta si ritrovò a percorrere la stessa strada. Venne assalito da una sensazione indescrivibile, indefinita, tra lo sgomento e l’indifferenza, tra il gusto amaro della malinconia ed il rimpianto.
Questa volta il sole tramontava. Tornava a casa. Anche lui:
Respirò l’aria fredda di quella sera d’inizio gennaio.
Già da un po’ di tempo aveva smesso di scrivere, e al sua vita continuava lo stesso.
Però sentiva come un vuoto, sentiva che gli mancava qualcosa, ma cercava di ignorare questo nuovo sentimento, un sentimento che non aveva mai provato prima, che si era impadronito di lui quella mattina fredda in cui aveva deciso di mollare tutto. Tuttavia preferiva ignorarlo. Era più comodo.
Le parole erano troppo dure, troppo crudeli. Le amava, ma loro erano ingiuste con lui.
Il cielo si stava tingendo di blu, quel blu profondo e accogliente d’una notte serena. Nel buio erano apparse le prime stelle, e brillavano timide, incerte.
Una goccia scese sulla guancia del Poeta. Una lacrima, una lacrima di cristallo che si ruppe cadendo sulla strada ghiacciata. Preferì non badarci.
Mise le mani in tasca, e continuò a camminare.
Gli mancava, la poesia. Gli mancava quella compagna di dolcezze e di momenti magici, la sua amica fedele e sincera, che pure l’obbligava ad essere sincero.
Udì un cane abbaiare.
Triste.
Non poteva spiegare il perché fosse triste, lo sapeva e basta.
Lo sentiva.
Sentiva in quel latrato la voce che egli aveva abbandonato, che ora era sola, e implorava il suo aiuto. Essa aveva bisogno di lui, del Poeta che era in lui. Viveva soffusa per tutto il firmamento, ma senza qualcuno che riuscisse a darle forma non era nulla, non era che un sospiro nascosto sotto la coltre di freddo che anche dopo l’inverno avrebbe coperto l’animo del Poeta, e non gli avrebbe dato più pace.
Il latrato non smetteva. Non finiva. Non cessava di tormentarlo.
Straziato, il Poeta prese a correre. Voleva allontanarsi da quel dannato e ingiusto richiamo. Corse via, disperato. Corse a lungo, senza meta, senza direzione, per le strade vuote di una città che gli pareva ostile.
Finalmente si fermò. Ansimava. Cercò di respirare profondamente. Il cuore gli batteva forte.
Si guardò intorno. La via era deserta. Solo un lampione solitario illuminava l’aria immobile e insensibile di quella sera invernale. Oltre il confine di quella luce artificiale, il Mondo sprofondava negli abissi delle tenebre, e anche il Poeta ci sarebbe finito presto. Si sarebbe sentito avvolgere dall’oscurità come da un mantello opprimente da cui non avrebbe più potuto liberarsi, che sarebbe stato costretto a portare sempre con sé, pesante come il dolore che ora gli era sceso sulle palpebre e gli impediva il respiro, che gli rompeva la testa col suono delle sua risa agghiaccianti. Lentamente il cuore smise di battere una marcia troppo insistente, e riprese il solito ritmo pacato. Si estinse in un grido soffocato; un urlo leggero, disperato.
Si appoggiò al muro e si lasciò scivolare per terra. Si sedette, mettendo la testa sulle ginocchia. Rimase così, immobile, qualche istante, poi alzò il viso e si sentì accarezzare dal tagliente, eppure gentile, sospiro del vento.
Pianse.
Un cane randagio, uscito inaspettato dall’oscurità, gli annusò la mano, e si sedette accanto a lui, un po’ scostato, guardingo, diffidente. I due rimasero un po’ ad osservarsi l’un l’altro.
Il cane si accucciò sull’asfalto, e con i suoi occhi tristi fissò l’Uomo. Era strano, l’Uomo. Lui non riusciva a capirlo. Il suo cervello di cane era forse troppo semplice. Non capiva. questo qui addirittura gli aveva sorriso, asciugandosi le lacrime. Non l’aveva cacciato via, come tutti gli altri.
Se ne stava zitto. Era in silenzio, e lo guardava. Non gli aveva urlato contro. No, questo qui era simpatico.
Il Poeta si alzò. accarezzò il nuovo amico, donandogli ancora un sorriso. Poi riprese la via di casa. Il cane, stupito rimase a guardare l’Uomo allontanarsi, poi, rassegnato, se n’andò. Chi lo capiva l’Uomo! Strana creatura...
Al Poeta immediatamente balenò in testa un lampo di gioia.
Il porto sepolto!
La rivelazione improvvisa, l’azzurro che si apre uno spiraglio fra le nuvole!
Si diresse sui suoi passi. Era tardi.
Ormai la notte si era quasi del tutto impadronita della terra. Del sole rimaneva soltanto un ultimo alone rossastro, laggiù in fondo, dietro la cascina.
Il poeta era felice.
Non poteva fare a meno della poesia, del piccolo straordinario che lo illuminava e lo apriva all’infinito...
Era felice. S’inoltrò nelle tenebre, non ebbe paura. La sua anima era in festa.
E, come per incanto, si trovò seduto sulla scrivania. La stanza era completamente buia. Preferì lasciar spenta la fredda e artificiale luce della lampada. Accese una candela. La sua candela, quella che, prima di partire, un amico speciale gli aveva donato. Restò un po’ ad osservarla mentre si consumava. Mentre moriva! Eppure luccicava. Gli offriva lo stesso suo calore e la sua fiammella sorridente.

...Quali tre dee nel ciel parlano le stelle
all’ultimo spicchio di luna.
Le notti divine ritornano
nel punto in cui il Mondo si ferma,
e io posso, un istante, contemplare
l’aria, buia ma cosparsa d’auree lacrime,
fissate a memoria nel tenero velo di notte
che già ricopre la terra.
E proprio in quel punto selvaggio ed oscuro,
dove la luce c’è, lontana o vicina, ma artificiale,
se guardi un po’ meglio distingui fiammelle
di vivida fede e speranza, stelle polari
a indicarti al via verso il nord della vita,
dove tutto è più freddo, di certo, eppure più vero.
Fiammelle sospese a invisibili fili,
fissate per gioco (o amore) su uno sfondo impalpabile,
a riempire il vuoto di mille universi,
a donare luce a mille pianeti,
dove forse ora un poeta vede la luna e due stelle sorridere,
dove forse c’è un principe, che aiuta una rosa,
che protegge con cura il suo grande tesoro.
Per questo le stelle sorridono,
ma noi da quaggiù cogliamo soltanto -soltanto?-
qualche fugace sguardo degli astri celesti;
chissà quel poeta, se anch’egli li vede!

Il Poeta infilò il foglio di carta in uno dei suoi libri. Ogni tanto riapriva i vecchi volumi, e gli piaceva scoprire tutte le volte, con lo stesso stupore e la stessa sorpresa, i suoi maldestri versi immortali.
Spense la candela, e si sdraiò sul letto.
Avvolto nella calda accogliente coperta della notte s’addormentò, pensando alla magica fiammella che brilla nel cuore di ogni uomo. Mentre dormiva il suo volto era illuminato da una luce serena.
Fuori, la stessa luna di quel mattino freddo splendeva, sorridendo.
Vegliava su quel figlio che dormiva...