Liceo Scientifico "Paolo Frisi" - Monza |
di Marco Villa - 3aG
Io vivo in Italia da quando ho tre mesi.
Ho frequentato una scuola italiana e ho finito le medie.
Parlo un italiano corretto e ho anche ottenuto qualche lavoro
temporaneo.
Come molti italiani della mia età.
Ma nessuno mi considera tale.
I miei genitori sono rom o zingari, come preferite chiamarli voi,
e per questo io devo essere come loro, per forza.
Da piccolo i miei parenti mi facevano chiedere lelemosina,
poi mi sono ribellato e mi hanno praticamente cacciato, ma nelle
convinzioni della gente io sono ancora uno di loro.
Non importa se su un documento ancora provvisorio cè
scritto repubblica italiana, io non potrò mai essere
cittadino di questa repubblica. Mi basta lesempio di un mio
amico, ha un lavoro fisso da tre anni ma la cittadinanza ancora
non gli è arrivata.
Lunica speranza che si ha per diventare italiani in tempo
breve è sposare unitaliana.
Il problema è che qualsiasi donna appena mi vede cerca di
allontanarsi stringendosi la borsetta. Infetti, mentre gli
africani di qualsiasi paese sono ormai considerati solo come
sfortunati noi rom siamo ritenuti solo dei delinquenti.
E vero, alcuni di noi lo sono ma ogni famiglia ha una
pecora nera, figuriamoci se non deve averla un intero popolo di
immigrati.
Sono quasi arrivato al punto di vergognarmi delle mie origini ma
mi rendo conto che questo non cambierebbe nulla, mi farebbe
ulteriormente perdere la faccia di fronte alla mia famiglia e
nullaltro.
Forse adesso mi potete capire meglio; la mia è una situazione
paradossale. Mi ritrovo ad essere straniero in una terra che
sento mia, disprezzato da gente che vorrei amica, ormai escluso
dal mio nucleo che mi ritiene un venduto
allOccidente.
Ci stavo pensando giusto laltro giorno... non so come
definire la mia condizione.
Non sono un clandestino, non sono un parassita, non faccio
lelemosina né attività illegali, non sono un apolide,
qualche straccio di documento, seppure il più inutile, ce
lho anchio. Sono finalmente arrivato ad una
definizione per me stesso. Per lo stato e per tutti io non sono
niente. Sono una cifra, ununità in una stima del numero di
immigrati che vorrebbe vivere con la gente ma è costretta a
sopravvivere alle spalle di questa.
Sono due giorni che non mangio.
Mi rifiuto di andare a fare la carità in un posto di
volontariato dove occhi compassionevoli e pietosi offrono un
piatto di minestra tenendo bene le mani sul portafogli per
evitare che qualche mano zingara lo faccia scivolare fuori di
tasca.
Dai miei genitori non voglio tornare o quel pizzico di orgoglio e
dignità che ancora mi è rimasto finirebbe nel fango del campo
roulotte.
Il problema più grave è che sta per arrivare linverno e
ho sentito che fra pochi giorni sgombereranno la casa che ho
occupato con qualche altro disperato.
In più in questi giorni si è aggiunta anche unaltra
umiliazione.
Due bambini ogni mattina passano davanti a dove siamo seduti e ci
fissano, esterrefatti, come se fossimo un fenomeno da baraccone,
come se facessimo parte di un circo.
Poi si allontanano tra risatina stupide nei loro giubbottini di
pelle.
Uno spettacolo per bambini viziati.
Ormai sono diventato questo.
Cinque anni fa, poco dopo le medie sognavo di diventare il primo
dirigente rom di una ditta da fatturati paradisiaci.
Invece mi ritrovo qui, straordinario esempio di inutilità.