Liceo Scientifico "Paolo Frisi" - Monza

Premio Letterario "Federico Ghibaudo"

“STRANO, STRANIERO, STRAORDINARIO”

di Marco Villa - 3aG


Io vivo in Italia da quando ho tre mesi.
Ho frequentato una scuola italiana e ho finito le medie.
Parlo un italiano corretto e ho anche ottenuto qualche lavoro temporaneo.
Come molti italiani della mia età.
Ma nessuno mi considera tale.
I miei genitori sono rom o zingari, come preferite chiamarli voi, e per questo io devo essere come loro, per forza.
Da piccolo i miei parenti mi facevano chiedere l’elemosina, poi mi sono ribellato e mi hanno praticamente cacciato, ma nelle convinzioni della gente io sono ancora uno di loro.
Non importa se su un documento ancora provvisorio c’è scritto “repubblica italiana”, io non potrò mai essere cittadino di questa repubblica. Mi basta l’esempio di un mio amico, ha un lavoro fisso da tre anni ma la cittadinanza ancora non gli è arrivata.
L’unica speranza che si ha per diventare italiani in tempo breve è sposare un’italiana.
Il problema è che qualsiasi donna appena mi vede cerca di allontanarsi stringendosi la borsetta. Infetti, mentre gli africani di qualsiasi paese sono ormai considerati solo come sfortunati noi rom siamo ritenuti solo dei delinquenti.
E’ vero, alcuni di noi lo sono ma ogni famiglia ha una pecora nera, figuriamoci se non deve averla un intero popolo di immigrati.
Sono quasi arrivato al punto di vergognarmi delle mie origini ma mi rendo conto che questo non cambierebbe nulla, mi farebbe ulteriormente perdere la faccia di fronte alla mia famiglia e null’altro.
Forse adesso mi potete capire meglio; la mia è una situazione paradossale. Mi ritrovo ad essere straniero in una terra che sento mia, disprezzato da gente che vorrei amica, ormai escluso dal mio nucleo che mi ritiene un “venduto all’Occidente”.
Ci stavo pensando giusto l’altro giorno... non so come definire la mia condizione.
Non sono un clandestino, non sono un parassita, non faccio l’elemosina né attività illegali, non sono un apolide, qualche straccio di documento, seppure il più inutile, ce l’ho anch’io. Sono finalmente arrivato ad una definizione per me stesso. Per lo stato e per tutti io non sono niente. Sono una cifra, un’unità in una stima del numero di immigrati che vorrebbe vivere con la gente ma è costretta a sopravvivere alle spalle di questa.
Sono due giorni che non mangio.
Mi rifiuto di andare a fare la carità in un posto di volontariato dove occhi compassionevoli e pietosi offrono un piatto di minestra tenendo bene le mani sul portafogli per evitare che qualche mano zingara lo faccia scivolare fuori di tasca.
Dai miei genitori non voglio tornare o quel pizzico di orgoglio e dignità che ancora mi è rimasto finirebbe nel fango del campo roulotte.
Il problema più grave è che sta per arrivare l’inverno e ho sentito che fra pochi giorni sgombereranno la casa che ho occupato con qualche altro disperato.
In più in questi giorni si è aggiunta anche un’altra umiliazione.
Due bambini ogni mattina passano davanti a dove siamo seduti e ci fissano, esterrefatti, come se fossimo un fenomeno da baraccone, come se facessimo parte di un circo.
Poi si allontanano tra risatina stupide nei loro giubbottini di pelle.
Uno spettacolo per bambini viziati.
Ormai sono diventato questo.
Cinque anni fa, poco dopo le medie sognavo di diventare il primo dirigente rom di una ditta da fatturati paradisiaci.
Invece mi ritrovo qui, straordinario esempio di inutilità.