Liceo Scientifico "Paolo Frisi" - Monza

Premio Letterario "Federico Ghibaudo"

 

"TRANQUILLA GIORNATA DI FUGA"

di Ugo Russo - 5a E

 

 

Finalmente sono tornato. E sì che mi ero proposto più volte di allontanarmi dal "mio" -ormai- mondo; penso che capiti a tutti, quando ci si sente feriti nel naturale egocentrismo ed emarginati dal proprio "microcosmo" - amici, università, società. Stavolta però ho preso l'autobus e ho deciso di abbandonare la rumorosa città (è proprio vero che i giudizi sono opinioni del momento) per trascorrere una giornata nella periferia in cui ho vissuto fino agli anni del liceo. Obiettivamente non sarebbe poi così diversa del centro, non fosse per quel suo aspetto un po’ degradato. Ma proprio questo la rende più vivace, musicale quasi, con gli omoni che tònano in dialetto e le donne che strillano con voce acutissima.
Mi sembra di non conoscere più nessuno. In pochi anni ho tagliato quasi tutti i legami con questi posti che mi stavano stretti e che ho lasciato, nonostante qualche lacrima, con una certa soddisfazione. E’ strano però che fra i tanti ricordi si sia intrufolata Gioia. Quale fosse il suo vero nome, proprio non lo ricordo. «Vieni a casa, gioia!», le urlava la madre, e noi la imitavamo in falsetto. E' stato il personaggio più inquietante della mia vita. Non che fosse poi così brutta, ma aveva preso gli unici particolari -per così dire- nobili dal volto popolano dei genitori e li aveva fusi e composti in una maschera quasi grottesca, con quell’eterno sorriso un po' malinconico. Spuntava sempre alle spalle di qualcuno, quindi stava anche per un quarto d'ora nella sua posizione d'attesa: collo proteso in avanti, solito sorriso a trentuno denti (un incisivo era stato perso da piccolo e non era più stato sostituito) e le braccia macilente che scendevano dietro la schiena da due spalle disegnate con buone squadre ma pochissima arte. Prima o poi qualcuno la vedeva ed esclama benevolmente «Cosa ci fai qui?», e tutti ridevano. Rimaneva quasi sempre lì, a un metro dalla conversazione. Questo, quando ero solo, mi faceva più pena di lei, anche perché mi sembrava di rivedervi me stesso, certe volte, con la mia insicurezza; ma una sorta di ribrezzo, estetico e sociale cancellava tali pensieri e mi illuminava nell'Olimpo degli integrati. «Su Gioia, a casa!».
Rapito dai ricordi mi ritrovo di fronte alla trattoria di Marco e suo padre. E così dopo qualche abbraccio e una breve chiacchierata mi offrono il pranzo, una cosa alla buona, giusto il menù del giorno. Accetto e mi siedo a un tavoletto libero.


Prima degli spaghetti arriva però una sorpresa.
Un immane giovane mi si siede di fronte. Ha degli occhi spiritati ed enormi, al cui interno due pupille ineguali si muovono a scatti, quasi indipendenti fra di loro e da ogni comando. «Mi permette di gradire la sua compagnia?». Credo di aver annuito, stupefatto dallo stridente contrasto fra domanda ridondantemente protocollare e il sorriso a denti sguainati e narici dilatate. Nonostante questi particolari che a tratti mi ricordano un buffo mostro d’infanzia, è un bel giovane, di venticinque anni forse, dotato di una loquacità straordinaria e terrificante: dal tono uguale e pacato irrompono frequentemente parole quasi urlate, accompagnate da gesti nevrotici o dal suo innaturale sorriso. E non c'è verso di farmi dare del tu: il suo monologo formale e colloquiale al tempo stesso mi ha già trascinato, inerme in alcune tristi pagine della sua vita.


Basta un ubriaco su una Porsche per toglierti, in un attimo, famiglia e vista. Non è poi tanto difficile da spiegare: «il televisore subì un tale colpo da non poter più trasmettere immagini»; gli rimase l'audio, per sentire il funerale dei suoi e le notizie dal mondo. «Lei avrà certamente visto qualche film del genere»; ma a me non ne viene in mente nessuno - ho sempre visto i programmi sbagliati «ecco, non era nulla che non avessi già conosciuto; solo che stavolta ero io protagonista».
Cambiò tutto: lui perse metà delle sue capacità, gli amici raddoppiarono l'affetto. Ma "l'affetto" gli sembrava tanto inutile e falso che finì per allontanarlo irrimediabilmente, da loro. «Lasciai la ragazza!» irrompe, accompagnando l'urlo con un gesto incontrollato fa cadere la bottiglia di vino. «Non sopportavo il ricordo della sua bellezza e ancor meno il suo nuovo tono di voce, dimesso, a volte spaurito».
In breve, gli pareva che il suo vecchio mondo non avesse più senso nel nuovo, dove l'immaginazione aveva cessato di esistere - moda, televisione e affiliati erano stati spazzati via. Anzi, non aveva senso in assoluto, se basta una piccola disfunzione per mostrarne la vacuità. Concluse che rimanere con i vecchi amici avrebbe obbligato entrambe le parti all'ipocrisia: non gli bastava l'animo di rivelare la sua scoperta e, l'unica volta in cui lo fece, non fu quasi ascoltato; ma fu meglio così. D'altra parte anche lui per continuare a vivere (e non aveva mai pensato a rinunciarvi) doveva ignorare l'urlo dei suoi genitori: "che senso ha la vita, se basta un niente per troncarla?". «E’ stato il mio più grave periodo di irrazionalità, te ne accorgerai!» e ringhiando così per poco non provoca un altro mezzo disastro. «Mi resi infatti conto dell'irrazionalità della vita stessa e la giudicavo un difetto».
Fu mandato in un centro d'assistenza parrocchiale qui vicino e continuò gli studi. Lì conobbe Elena, la ragazza che lo avrebbe aiutato e accompagnato ogni giorno. Aveva una voce allegra «soave» addirittura ed io ho qualche difficoltà ad unire le due immagini. Ben presto divennero inseparabili, riuscivano a parlare ore ed ore senza sfiorare con una parola il mondo attorno a loro «Già, non ho mai saputo niente di lei». Nel frattempo tornava in lui, subdolo, il vecchio senso di bellezza che affascina tutti gli uomini; come quando, in primavera, trascorreva con lei giornate intere sul colle fuori città: «Sentivo il calore del sole su braccia e volto, che, mediato dai vestiti diffondeva a tutto il corpo; il canto della voce di Elena era accompagnato dal coro dei passeri che il vento, con la sua frescura, univa a tutta la scena, trasmettendo ai miei quattro sensi una bellezza e un'armonia inequiparabili». Non riesco a credere che queste frasi escano dalla bocca di questo uomo. «Ricominciai a vivere allora la bellezza della vita e mi accorsi che la sua irrazionalità, se esiste, è solo un pregio».
Poi continua: «Amavo soprattutto il suo silenzio quando gli altri bisbigliavano della mia presunta pazzia!». L'urlo delle ultime due parole passa attraverso un ghigno che stavolta rimane indelebile sul suo volto. «Il medico assicurò che il televisore non era rotto, bastava ricollegare l'antenna, e tutti: "hai visto, tornerai come prima!"». Solo con Elena continuava a non parlarne, fra di loro nulla cambiava. «Un intervento da niente, avevo già subito che il filo si rompesse, sarebbe stato assurdo rifiutare che venisse aggiustato». Beve un sorso, ha bisogno di schiarirsi la voce. «L'elettricista fece il suo dovere alla perfezione e adesso ricevo tutti i canali, anche se mi sembrano un po' irreali sembrano quasi cartoni animati». Il discorso diventa affannoso, sconnesso, terrificante: «Mai vista una stanza d’ospedale più squallida: le infermiere, i nuovi amici... erano molto peggio di come li avevo immaginato.. anzi non li avevo mai immaginati».
«I primi colori li vidi in giro per il centro... e all'ospedale aspettavano ancora che uscissi dal bagno, ma c'erano un sacco di macchine bellissime che non avevo mai visto... le ragazze, le minigonne!... scappavano perché ho gli occhi stralunati... Mi trovarono alla vetrina dei televisori commosso... non voglio andare in ospedale!». Dopo una settimana tornò al centro assistenza e il giorno seguente vide Elena: "Sono stata dai parenti, ma mentre ti operavano ero vicino a te, come continuavi a chiedere" - e pianse fra le sue braccia, felice. «Vidi il suo volto e mi sentii tradito... non poteva avere quella ridicola maschera... altro che parenti, aveva temuto la mia reazione» Sragiona, è costretto a fermarsi. estrae una foto dalla tasca, la guarda e infine riprende con tono straordinariamente pacato: «I giudizi sono opinioni del momento... con queste mani mi resi giustizia... la strangolai». Stropiccia la foto, imperturbato, e la lascia sul tavolo; un'ultima frase «Lei, ora, mi capirebbe, mi darebbe ragione», poi l'addio: «Il parroco si sarà accorto della fuga... la polizia sta per arrivare».
Rimasto solo, voglio guardare la foto. Povera Gioia, ecco qual era il tuo vero nome. Povero ragazzo.

Basta un giro in periferia per capire qualcosa del proprio mondo.