Liceo Scientifico "Paolo Frisi" - Monza

Premio Letterario "Federico Ghibaudo"

 

"LO SPECCHIO"

di Elisa Vimercati - 3a H

 

Nacqui per la seconda volta, con le stesse difficoltà della prima nascita, avevo dovuto lasciare le cose di sempre, sicure e tranquille, per entrare nell’infinito.
Appena nata mi trovavo da sola in un luogo buio e molto silenzioso. Guardai attraverso la luce debole: davanti ai miei occhi si stagliavano delle macchie confuse, indistinguibili e lontane. Non si sentiva nessun suono.
Abituatami alla penombra, notai che c’era vicino a me un oggetto, ma non riuscivo a capire che cosa fosse.
Decisi di avvicinarmi ad esso per distinguerlo meglio: non sarebbe stato saggio muoversi per veder gli oggetti lontani, non curandosi di ciò che è più vicino.
Trascinatami fino all’oggetto, riuscii ad identificarlo: si trattava di uno specchio, che non era nuovo e sembrava essere lì da sempre.
Vi guardai dentro, e non vidi riflessa la mia immagine: o meglio, il riflesso c’era, ma era una sagoma dai tratti incerti, come se tra me e lo specchio si fosse interposto un sottile velo bianco.
Rimasi immobile per il dolore, guardandomi intorno.
Quello era un prato, ed era pieno di fiori: la maggior parte erano margherite, frammezzate da gruppetti di primule, tulipani rossi e gialli.
Li circondava l’erba, piena di floridi germogli di un bel verde vivo. tutto era dorato dai raggi di un sole di mezzogiorno, che, alto nel cielo, emanava un forte calore.
Sopra i fiori svolazzavano delle farfalle, con le loro ali simili a fine tessuto innervato di complicate cuciture. Due in particolare attrassero la mia attenzione: una aveva sulle ali quattro bellissime macchie dai vivaci colori, l’altra le aveva bordate di giallo e di nero.
Istupidita dalla botta appena ricevuta e dal caldo, rimanevo ferma, con lo sguardo perso sulle farfalle, le orecchie piena del ronzio degli insetti che, unici, animavano quel posto apparentemente disabitato.
Per quello che la mia posizione mi permetteva di vedere, non scorgevo costruzioni, né alberi, né altro che potesse procurarmi un po’ di ombra.
Sempre più accaldata mi lasciai cadere sull’erba: al contatto era fresca e morbida, e per un momento provai sollievo. Ma il caldo diventava sempre più pesante, non riuscivo ad alzarmi ma allo stesso tempo desideravo poter fuggire da quel sole, levarmi l’afa di dosso.
Come invidiavo quelle farfalle! erano solo degli insetti, eppure la loro condizione era migliore della mia: almeno loro potevano volare, e procurarsi così un po’ di refrigerio.
La mia momentanea impotenza ad alzarmi, in quella situazione, mi causò molta rabbia. E fu questa rabbia che, alla fine, mi fece alzare: mi sollevai con un moto di stizza, e mi misi a camminare. Ora che mi ero alzata il paesaggio era più chiaro: ero in mezzo ad uno sterminato prato, circondato dalle montagne; non c’era nessun albero, così andai ad esplorare quel mondo surreale.
Dopo aver camminato tanto da sentire le gambe muoversi da sole, finalmente vidi un bosco.
Quel bosco mi sembrò la salvezza, e mi ci tuffai dentro piena di gioia. Mi sedetti sotto una grande quercia: com’era piacevole l’ombra!
Sonnecchiai per un po’, troppo stanca per proseguire.
Mi svegliò un ragno, che oscillava sulla mia testa mentre tesseva la ragnatela con cui avrebbe teso trappole.
Scattai su dal disgusto, e proseguii. Ora che non pensavo più solo a ripararmi, iniziò a prendermi la paura: "Che posto è mai questo? E’ così deserto... e se incontrassi qualcuno di pericoloso? Dopotutto non ho nessuno che mi aiuti... ". Rabbrividii, ed iniziai ad agitarmi. Cercavo razionalmente di porre argine alla corrente di pensieri così lugubri, ma sapevo che non sarei riuscita a controllarmi. E come avrei potuto, di fronte all’assurdità di quel viaggio? Ero finita chi sa come in un mondo sconosciuto, senza saper perché ero lì e soprattutto senza sapere come avrei potuto uscirne.
Ciò che avevo intorno non contribuiva certo a rincuorarmi: i rami erano molto più fitti e creavano una cappa scura, nonostante non fosse ancora notte. C’erano continui rumori, gli animali che si muovevano nel sottosuolo. Sobbalzavo ad ogni fruscio, ad ogni ramo che incontravo sulla strada, ad ogni foglia secca che schiacciavo. La paura cresceva, irrazionalmente, stava diventando una vera e propria angoscia. Mi sentivo così sola! Non sapevo dove andare e cosa fare, ma questo sarebbe sembrato molto più facile con qualcuno accanto.
Continuai a camminare disperata, inciampai e caddi, scivolando per alcuni metri tra i cespugli, verso il basso.
Mi rialzai... e quello che vidi mi mozzò il respiro.
Davanti a me c’era un paesaggio stupendo: da alcune rocce sporgenti precipitava una cascata, che andava a formare una conca. Nell’acqua limpida si specchiava ogni sorta di alberi, che spiegavano grandi foglie.
Dai rami pendevano rampicanti inerti, che sfioravano l’acqua, increspandone la superficie; tra le rocce che circondavano quel laghetto spuntavano alberi con bellissimi fiori rosa e bianchi, che aprivano le loro corolle, diffondendo nell’aria un dolcissimo profumo.
Feci per scendere a dissetarmi, ma di colpo mi fermai.
Vidi qualcuno chinato sull’acqua, completamente vestito di bianco; non potei dire se fosse stato uomo o donna: non riuscivo a vederne il volto, ed anche il corpo era avvolto da un lunga cappa bianca.
Stavo per fuggire, quando alzò il volto e mi vide.
Rimasi paralizzata dalla paura, mentre diceva: "Ciao, ti aspettavo. Ma non avere paura, sono un amico."
La sua voce era calda, accogliente: certo non mi era nemico. Così iniziai a riempirlo di domande: "Chi sei tu? Perché io sono qui, e dove mi trovo?" Lo so, si dovrebbe essere diffidenti con gli estranei, ma può essere cattivo qualcuno che vive in un luogo del genere? Inoltre ero troppo curiosa.
"Quante domande! Cercherò di risponderti, per quanto mi è possibile. Alla prima domanda ho già risposto, per cui passerò alle altre.
Allora, seconda risposta: ti trovi qui per esplorare questo luogo, nient’altro. Per quanto riguarda la terza... bè, non devo essere io a dirtelo, lo scoprirai tu stessa."
Che tipo loquace! Bè, non mi restava altro che tenermi la mia curiosità. Con mio grandissimo stupore risalimmo la cascata nuotando: e il mio misterioso "amico" stava davanti, ed io mi aggrappavo a lui quasi a peso morto. Non gli chiesi spiegazioni: sapevo che non me le avrebbe date.
Seguimmo per un po’ il corso del fiume, inoltrandoci nel bosco, ora in compagnia di un’altra persona, mi appariva diverso: non avevo più paura.
Più volte rischiai di cadere, ma quello che camminava con me mi venne sempre in aiuto.
Uscimmo dalla foresta, andando verso nuovi luoghi: camminammo per montagne aguzze e morbide distese di sabbia, attraverso lande deserte e rigogliose valli. Incontrammo anche numerosi animali, curiosamente, quello che più mi sorpresi di vedere fu un gatto, le cui abitudini erano perfettamente domestiche; in quel momento la nostalgia di casa fu forte: dissi che volevo tornare a casa, che non m’importava di conoscere quel mondo e non volevo aspettare oltre.
Il mio compagno di viaggio mi disse che per il momento non avrei potuto ancora tornare, ma che non sarebbe mancato molto.
Questo mi risollevò: avevo pensato di dover rimanere lì per sempre. Continuammo a camminare: entrammo in una gola, molto lunga, buia e fredda.
Quando uscimmo da questa, vedevamo davanti a noi il mare, infinito e bellissimo: il cielo si era fatto di piombo, rimaneva bianca la sottile linea bianca che segnava l’orizzonte.
Il paesaggio era buio, ma il mio occhio arrivava a vedere la luce, e quella penombra mi riempiva il cuore di gioia, mi comunicava il senso dell’immensità che si stendeva davanti a me.
Percorremmo la scogliera per un centinaio di metri, poi imboccammo un cunicolo che portava sottoterra.
Vidi il viso della mia guida irrigidirsi, e avanzai titubante con lei. Sfociammo in un cunicolo scavato da uno dei fiumi sotterranei.
Seguimmo il corso d’acqua, mentre le pareti diventavano sempre più umide e l’odore del salmastro si sentiva più forte.
"Tra poco sboccheremo sul mare. Lì sta attenta". Cosa voleva dire? Come aveva detto, poco dopo uscimmo allo scoperto.
Guardai in alto: riuscivo a vedere il cielo, ma gran parte del paesaggio era fuori dalla mia visuale, a causa delle rocce che ci circondavano.
Eravamo in una sorta di vulcano, però più basso di quelli normali, e cavo.
Le pareti rese sottili dal lavorio del vento e dell’acqua nel corso degli anni, presentavano numerosi fori, ampie finestre naturali da cui si intravedeva l’indimenticabile paesaggio.
La marea era riuscita a scavare numerosi cunicoli da cui penetrava all’interno.
I nostri piedi però non toccavano l’acqua: poggiavamo su alcune rocce che spuntavano dall’acqua formando grandi piattaforme.
Fu allora che la vidi: di fronte a noi, in mezzo a quel luogo, si stagliava un’oscura figura, che si confondeva con il nero del cielo.
Non diceva una parola, ci stava davanti con aria minacciosa, ostile "Ecco, ora devi stare pronta: dobbiamo combattere".
"Combattere io?! Figuriamoci! Non ho mai combattuto in tutta la mia breve vita, e non ho intenzione di cominciare proprio ora! E poi, sentiamo, perché dovrei combattere?"
"Ora non te lo posso dire, ma poi, forse..."
"A certo, devo battere chi non conosco assieme a chi conosco appena, per un motivo che non conosco! Non aspetterai che ti dica di sì!"
"Proprio così."
"Ma nemmeno per sogno. A proposito, non è per caso un sogno, un po’ assurdo ma tanto ora mi sveglio e mi ritrovo nel mio lettino..."
"Mi dispiace, ma la risposta è negativa. Comunque, dal momento che ti preme di tornare a casa, com’è naturale, ti posso dire che riuscirai a far ritorno dopo aver affrontato la battaglia".
"Bè, in questo caso... comunque ci sei tu che mi aiuti vero?"
"Certamente".
Avevamo appena finito di parlare, quando quella figura ci attaccò. Certo noi eravamo in due, ma chi ci stava di fronte era estremamente agile e veloce.
Provai un istintivo odio verso di lui: ero decisissima a vincere, in quel momento non avevo altro pensiero.
Anche il mio compagno non era da meno, e battemmo più volte il nostro avversario. Stavamo per sconfiggerlo, quando lui colpì molto forte quello che ormai era un amico, facendogli perdere i sensi.
Andai verso di lui: il velo era caduto e potevo vederlo in faccia.
Quello era il mio volto! D’un tratto scomparve.
Sconcertata, confusa, mi voltai verso l’altro.
Ora anche lui aveva tolto il velo: pure lui aveva il mio viso!
Rimasi a fissarlo per un lungo istante: non provavo nulla, solamente terrore, vero, forte.
Corsi via, il più lontano possibile da quel luogo. Correvo alla cieca, forsennatamente, senza direzione.
Corsi, e corsi; finché inciampai e caddi nel vuoto. Sotto di me il nulla.
Pregavo che fosse un sogno, mi aggrappavo disperatamente a questo pensiero con tutte le mie forze: "E’ un sogno, è un sogno..."
Venni sbalzata fuori dallo specchio, di nuovo in quella stanza.
E allora capii: quello specchio, quando rinacqui all’adolescenza, mi aspettava da sempre, ed io avrei dovuto rientrarvi.
Non subito: ero troppo scossa.
Ma lo avrei dovuto fare: dovevo ridiscendere, ripercorrere quel mondo, attraversare il mare, parlare ancora con me stessa, battere me stessa laggiù, nello strano vulcano...
Mi sarei odiata se non fossi riuscita in questo.
Perché tutto, di questo mondo, era parte di me.
Quel mondo è il mio più profondo "io", e lo specchio è qui, e non potrei non usarlo.
Anche se, forse, così sarebbe più comodo...