Liceo Scientifico “Paolo Frisi” - Monza

Premio Letterario “Federico Ghibaudo”
Premio Speciale Giuria


“IL RITORNO DELL’UOMO MARZIANO”
di Federico Fumagalli - 4a F


Anno 2500. Quinto pianeta del sistema solare, denominato Marte, o anche Pianeta Rosso, città di New Tokio. Ore 05:00 locali. Un giovane studente dell’Università Marziana, chiamato Kob, era già sveglio nel suo alloggio. Seduto sul suo letto, stava osservando una piccola busta di carta; erano anni che non vedeva buste del genere, da quando suo nonno gliene aveva mostrata una comprata da un rigattiere di New Saigon, prima che la città fosse devastata dal Cani di Io. Lesse per l’ennesima volta la lettera, la rimise nella busta e nascose il tutto nella tasca interna della tuta. Uscì dal suo cubicolo e si ritrovò nel corridoio buio della camerata addormentata. La luce abbagliante del neon lo circondò e illuminò la sua divisa rossa da studente. Il corridoio cominciò a scorrere non appena Kob ci mise sopra le sue calzature lucenti e fiammeggianti. Andava molto fiero di quelle scarpe, aveva lavorato per un mese dal mulatto che gestiva il Jasmin per potersele permettere. D’altra parte le scarpe erano l’unico indumento che i Federati potevano scegliere di indossare dopo l’ultima guerra Marziana. Per poter identificare i cittadini ognuno aveva una tuta in funzione del suo compito: rosso per gli studenti, blu per gli impiegati, verde per i mercanti, grigio per i Pionieri, bianco per i Consiglieri...
Arrivato all’elevatore vi salì, e scese fino al piano terra. Portò il cappuccio al di sopra della testa rasata per nascondere il taglio sulla nuca, e schiacciò il bracciale che aveva al polso destro per far aderire il tessuto plastico alla sua gracile figura. Nell’enorme strada sotterranea giravano ancora pochi trasporti, e un paio di poliziotti assonnati chiacchieravano all’angolo della strada. Kob passò di fianco a loro, ma appena superati sentì una mano afferrarlo alla spalla e girarlo di peso. Si trovò davanti la tuta nera del più grosso del due uomini. “Dove vai, ragazzo? Là non puoi andare, stanno sgomberando tutto, dopo il macello che i tuoi amici hanno combinato ieri mattina...”. Kob tornò indietro, arrivò davanti all’ingresso del suo palazzo e prese la decisione più folle della sua vita: andarsene.
Tornò nel suo cubicolo, accese il suo schermo SLO e eliminò tutto quello che vi era memorizzato. Poi schiacciò un bottone al bordo del letto, e di scatto si trovò di fronte la sua vita. Prese una sacca di arago, e ci mise dentro la tuta di ricambio, l’unica foto del suoi genitori, i suoi libri-diapositive e il suo visore CLO. Non c’era nient’altro in quella stanza che gli appartenesse, e senza voltarsi se ne andò. Ripeté la stessa strada di prima, ma questa volta quando raggiunse i poliziotti girò a destra senza guardarli in faccia, e scese le scale della NT-metrò. Fece scorrere la sua tessera di studente nel lettore, passò i metaldetector e giunse infine al tunnel. Il bolide arrivò all’istante, e per salire Kob si fece largo a spintoni, come una goccia di sangue nel mare d’acqua degli impiegati. Il viaggio per I’Astro-porto sarebbe durato pochi minuti; davanti a lui una donna leggeva il giornale. La notizia del giorno riguardava ovviamente gli scontri del giorno prima nella piazza davanti all’università: secondo il giornalista dei ‘pazzi rivoluzionari’ avevano assalito le postazioni di mitragliatrici che circondavano la piazza con lo scopo di pubblica sicurezza, ed era stato inevitabile per i soldati sparare. Le associazioni studentesche affermavano che c’erano stati almeno 99 morti, ma secondo la questura di Samoa Yard esageravano, al massimo 45 e mezzo, non di più.
Kob aveva ancora in mente il volto di Bel, e il suo corpo perfetto agonizzante tra le sue braccia tremanti. Il sangue della ragazza era fuoriuscito dalla tuta rossa con un guizzo, e aveva sporcato le candide mani del ragazzo. Dopo più di un giorno sentiva ancora il sangue caldo del suo amore bagnargli le mani, e il suo cuore non sapeva ancora accettare quella perdita. Quanti dei suoi amici erano sopravvissuti? Di sicuro non Joe, che si era preso un raggio Bravo in volto, e tanto meno Matzui, con una dose di veleno nel suo pasto...
Ma ormai era tardi per pensare a loro, doveva andare via da quel pianeta che era stato la sua casa per tutta la vita. Poggiò una mano al petto per sentire se la lettera era ancora li, e si tranquillizzò quel tanto che bastava per continuare il suo viaggio.

Dopo un mese di viaggio sulla Nagasaki, Kob cominciava ad averne abbastanza di quel dannato universo. Non capiva perché, nonostante tutto quello spazio vuoto, su Europa i Pionieri vivessero ancora in quei moduli del 2000...
Era strano viaggiare su quella astronave ad idrogeno, sembrava di essere all’interno di una enorme bomba nucleare pronta ad esplodere e sparire nell’insostenibile vuoto cosmico. D’altra parte erano rimaste in poche le navi che ancora si recavano sulla Terra, e Kob aveva avuto una fortuna sfacciata nel trovare quella ciurma di negri che dovevano portare chissà quale carico a chissà quale base militare su Venere. Un piccolo scalo sulla Terra non li avrebbe rallentati più di tanto, specialmente se in cambio avessero ricevuto qualche danaro della Federazione.
La Terra era diversa da come se l’era aspettata Kob. Si immaginava un luogo devastato dalle guerre del XXIII secolo, invece il paesaggio era florido e prospero, e da qualche decennio le nubi tossiche si erano diradate ed era possibile camminare all’aria aperta.
Quando atterrò nel piccolo astro-porto di Huy non perse troppo tempo nel salutare i suoi compagni di viaggio; rilesse la lettera accuratamente e sì recò all’esterno. Per la prima volta vide il cielo azzurro che tutto vedeva e tutto giudicava, e trasse un respiro profondo, come il primo respiro della vita di un delfino. Dopo ci saranno migliaia, milioni di altri respiri, ma quello è il principio di tutto.
Non c’era lo stesso ossigeno che c’era su Marte sebbene la sua mente istruita gli dicesse il contrario. Tutto aveva un odore che invadeva le sue narici, i fiori, le piante, i cibi.
E poi c’erano animali, non nelle gabbie, ma all’aria aperta! E le donne gli davano cibi che lui non aveva mai visto! A pochi metri dall’uscita vide strani individui con larghi cappelli e animali grigiastri dall’aria annoiata. Non solo aveva visto il suo primo mulo, ma fu anche costretto a salirci sopra! Non c’era altro mezzo di trasporto che gli permettesse di scendere a sud, fino alle Alpi, attraversarle ed arrivare fino alla Grande Pianura.
La comitiva di uomini e muli lo salutò nella città dove ancora giace la corona del Figlio, a una decina di chilometri dalla sua meta, dopo avergli donato abiti più leggeri e comodi, e un cappello per proteggersi dal sole che con i suoi raggi infuocati picchiava davvero, come dicevano le leggende per i bambini marziani. Cominciò a seguire verso nord-est le rotaie di una ferrovia, che tante volte aveva visto nei libri.
Kob camminava da quasi due ore. Mai aveva camminato così tanto nella sua vita, il suo fisico era quello di un animale da città, abituato alla frescura degli uffici, non al caldo torrido di quel pianeta. A un tratto stramazzò a terra, come se le sue gambe fossero diventate di gelatina, e prima di rendersene conto aveva il volto coperto di sangue su una traversina. Era ridotto male il povero Kob, con i vestiti sudati, sporchi e stracciati, le scarpe lacerate, e non si ricordava neanche il perché i suoi palmi fossero insanguinati.
Le indicazioni della lettera erano chiarissime. Solo che lui non era come il ragazzo che aveva scritto quella lettera, non poteva arrivare là dove erano arrivati i suoi avi. Aveva fallito, era stata solo una farsa, i suoi amici erano morti, il suo amore era morto, il suo passato era morto. Ma il suo futuro?
Kob si risveglino in un letto accogliente, che aveva anch’esso un odore speciale, di animale selvaggio. Si rese conto di essere ancora vivo, aprì gli occhi e vide una fanciulla dagli occhi scuri. Stava attizzando un fuoco, e quella luce illuminava la stanza nel buio della notte. A Kob sembrava una luce divina, perché non era l’opaca luce di una lampadina, ma qualcosa che arrivava dal cuore magico della natura, qualcosa in cui credere, per la quale vivere.
Kob si alzò in piedi, guardò la fanciulla sorridente e le disse “Continua a ravvivare il fuoco”. Il suo cuore continuava a battere, prese il sentiero che risaliva il torrente, cominciò a salire la collina, inciampando tra i rami e gli arbusti. Solo la luna e le stelle illuminavano il suo viaggio, solo la terra poteva guidarlo; arrivò in mezzo alla radura, alzò le mani al cielo e gridò con tutta la forza della sua anima “Io vivo!”.

Forse tu non ti chiami Kob, ma sei tu che hai in mano questa lettera...


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