Liceo Scientifico “Paolo Frisi” - Monza
...la vera vita del pensiero dura soltanto fino al
confine delle parole: oltre il pensiero muore...
(Charles Boudelaire)
L’aria sapeva di carboncino.
Un profumo d’arte velava i contorni dell’intera stanza di scartoffie, fogli
stracciati, polvere, cicche rinsecchite, corti centimetri di matita e un
respiro inquieto.
David sedeva su una sedia al centro della stanza, sulle gambe una sottile asse
di legno e un foglio bianco. Trino, alla sua destra era steso a terra un
astuccio ricolmo di mozziconi di matite, una seppia, un taglierino e polvere di
carboncino. Alla sua sinistra una bottiglia vuota di birra. Aveva davanti un
divano vuoto, coperto da un lenzuolo stropicciato e cuscini accartocciati. In
mano un frammento di carboncino. Si sfregò il volto, la barba ispida di due
giorni. Due profonde occhiaie gli ferivano le guance e un peso all’altezza
dello sterno lo schiacciava sulla sedia. Il carboncino sembrava piombo e David
non era in condizione di tracciare alcuna linea. Il soggetto era ben impresso
nella sua mente, si era convinto fosse quello giusto, finalmente. Ma alfine non
se ne voleva uscire da quella dannata testa. Lo pervase una stanca rabbia:
David, l’anima di un artista, l’inconcludenza di un bambino.
Rumori sulle scale. Bussano alla porta. Non aspetta nessuno, avranno
sicuramente sbagliato. Tornò a fissare il foglio e ricadde nel suo coma
artistico. Bussano di nuovo. Stancamente si risollevò, appoggiò asse e foglio
sulla sedia e si avvicinò all’uscio, si risistemò la canottiera sgualcita e,
appoggiato allo stipite, girò la chiave, sciolse la catenella e socchiuse la
porta.
Sulla soglia si presentò una donna in abito nero. David la fissò impietrito,
non sapeva da cosa, non sapeva perché. La donna taceva, poi fece un passo
avanti; David venne oltrepassato e si tirò da parte.
«Ecco dunque dove abiti ».
David non riuscì a pronunciare una parola, ma interrogò l’ospite con lo
sguardo. Guardandosi intorno la donna si tolse il nero cappello a falda larga e
lasciò cadere una chioma d’ebano giù sulle spalle.
« Da tempo desideravo venire a trovarti, ma ho lasciato che arrivasse il
momento ».
Si levò il soprabito e rivelò un leggero vestito nero, largo sulle spalle,
stretto in vita. Splendeva di incolore armonia.
«Vorrei da te un ritratto ».
Il vestito, slacciato, si adagiò a terra come se contenesse solo aria,
carezzando la pelle candida e liscia della donna con mano di velluto.
David era rapito, non dalla seminudità dell’ospite, ma dall’aura che la
avvolgeva senza lasciar trasparire un solo raggio di folgore.
Con la coda dell’occhio vide il foglio bianco appoggiato all’asse e gli parve
di scorgervi un fremito, così come aveva tremato il suo cuore nell’aprire la
porta. Si diresse, allora, verso il divano, come un naufrago appeso a una sottile
trave logica in una tempesta di immagini e pensieri sconnessi. Risistemò il
lenzuolo e sbatté i cuscini; poi, mentre la donna si adagiava nuda e leggiadra
sul divano, accovacciato a terra, appuntì il carboncino. Si sistemò sulla sedia
e carezzò il foglio, gli occhi chiusi, il respiro sospeso. Inspirò
profondamente, svuotò i polmoni e con gli occhi doloranti per il sonno perso e
il tormento implacabile del suo coma fissò attentamente la donna. Lo sguardo
saltava freneticamente qua e là, l’aria parve farsi pesante: si sentiva
soffocare, preda di un’agitazione, di un improvviso slancio ispirato. La mano
fremeva e il carboncino gli scottava tra le dita. Il cuore tremava ancora,
inquieto, e il respiro sfumò la prima linea tracciata sul foglio. I pensieri si
diffondevano per i polpastrelli, in linee essenziali e sfarzi ombrosi.
Il profilo della donna palpitava dentro il foglio e David con rapidi tratti
riuscì a placarlo, ma senza riuscire a placare il tremore che gli agitava
l’anima.
La pelle traspariva fulgida e pallida, resa ancor più candida dal velo d’ombre
che sembravano voler scivolar via, nascondendosi lontano dalla luce. E nel
respiro angosciato delle linee David sentì gli occhi pesargli sulle palpebre.
Un lancinante senso di nausea non gli dava tregua: era questo ciò che lo
impietriva, mentre nel corpo gli si diffondeva un’energia che gridava
espressione e insieme gli infiacchiva i muscoli. Le gambe avrebbero voluto
tremare, strette da un cappio al ginocchio; le braccia soffocavano nei gomiti e
le mani, come prese da un crampo, si rifiutavano di reggere più a lungo il
carboncino. Era grido. Grido generato chissà dove, incapace a capacitarsi di
dover uscire per una bocca, incredulo a doversi accontentare di diffondere da
un paio di mani. Era grido d’arte. Un’escrescenza poetica dalla mente di un
dio. Energia crescente incontrollabile viva alla vista di quella donna. Energia
turgida come un’onda, sempre più gonfia, sempre più tagliente in cresta, si
accumulava in lacrime di fuoco, appese all’angolo degli occhi - estrema
manifestazione dell’anima -. Ma il filo dei pensieri di David si era perso in
un inestricabile gomitolo. La fine percezione e sensibilità di quell’istante
era andata perduta nella bassezza dell’incomprensione e nell’inconfutabile fine
cui sarebbe presto andata incontro.
Ultimo atto di una tragedia eroica, gli occhi ammiccarono sul foglio per mano
di David. Fuoco bianco. Fiamma di un’ancestrale paura. E David abbandonò il
ritratto, prima di doverne essere abbandonato. Gli diede un ultimo sguardo
angosciato, poi più nulla: non avrebbe prolungato quell’inutile agonia,
quell’univoco addio. Non più un abbraccio tra padre e figlio. David l’avrebbe
lasciato andare a nuovi occhi, a nuovi cuori, e se ne sarebbe rimasto con la
sua sola malinconia. Ormai quell’opera non era più sua, gli portava solo via un
pezzo di anima. Addio.
La donna prese il foglio senza dire una parola, senza quasi guardarlo, si
rivestì e mentre si rimetteva il cappello mormorò:
« A presto ».
Uscì e la porta si richiuse alle sue spalle, lasciando lo stesso silenzio che
all’ingresso. David non si era mosso dalla sedia e fissava l’ombra di pieghe
che la donna aveva lasciato sul divano. Le gambe fremevano ancora per correre
via, senza averne la forza, il bruciore del cappio imperturbabilmente al
ginocchio. David si sentiva come un giuda che si fosse lasciato sfuggire di
mano il suo dio. L’aveva forse toccato in quel momento, per un solo istante e
poi il nulla. O la totale consapevolezza di aver perduto il tutto. Frenesia.
Inquietudine. Un’arte improvvisa e devastante. Forse l’unica vera poesia. Ma nulla è più terribile dell’impossibilità
di creare, generare e partorire il dio che mi attraversa la mente e mi danna
l’anima. Frenesia rinnovata. Inquietudine irascibile. Ora fremevano i
polsi, insaziabili di carboncino. A nulla, però, valeva disegnare... in una
tormentata illusione di poter svelare l’ineffabile. In preda a uno spasmo di
consapevolezza, sentì che l’anima si allontanava da lui passo dopo passo, preda
di un foglio, pronta a sprigionarsi e a dargli nuovo respiro... e David giacque
senza fiato sulla sedia, alla sua destra un astuccio e in mano una scheggia di
carboncino, alla sua sinistra una porta chiusa e l’anima ormai lontana.