Liceo Scientifico “Paolo Frisi” - Monza
Cos’è questo?
La nascita d’un racconto o la morte d’uno sventurato foglio bianco?
Festa e fiocchi azzurri o lutto e drappi neri?
Miei cari amici, ognuno può solo rispondere per sé.
Dal canto mio, spero solo che questo parto della mia mente trovi il vostro
perdono per aver inquinato un così puro spazio bianco, altrimenti non mi
resterà che costituirmi per foglicidio.
La polvere, in primis.
Soffocante non rende l’idea. Provate a fare jogging in Corso Milano alle 7.30.
Questo rende l’idea.
E il prurito, ragazzi, il prurito!
Avrei giusto voluto una grattatina dietro la schiena, ma quei dannatissimi
spallacci mi impedivano una torsione sufficiente delle braccia.
Mi diedi una scrollata, tentando di resistere stoicamente all’infame tradimento
dei miei recettori sensoriali. Fu un clamoroso errore. Mezz’ora passata ad
aspettare dentro una conchiglia di metallo sotto il sole a picco mi colò
addosso in forma di fastidiosissimi rivoli di sudore.
Ma la lancia! Pensavo di potermi fidare almeno di lei! Il familiare peso
dell’arma cominciò invece a divenire ignobilmente fastidioso.
“Di un po’, Battista, perché non mi sono fatto monaco?”. Il mio
affezionatissimo scudiero rispose con ghigno sardonico: “Perché il destino di
vossignoria è nella nobile via delle armi”. Comprenderete quanto volentieri
avrei voluto privare la mascella di costui d’un paio di denti, ma fui distolto
dal mio proposito da un improvviso squillo di trombe, una sola nota ripetuta
più e più volte.
Al termine della performance, la voce d’un araldo si fece strada attraverso la
barriera metallica dell’ elmo, poi il canale auricolare, incudine martello
staffa etc... e annunciò il mio sfidante.
Come da protocollo, alzai la celata, e il cigolio dell’acciaio temprato ma non
oliato coprì il nome del mio avversario.
La luce del meriggio estivo invase il mio campo visivo, costringendomi a
strizzare gli occhi. Davanti a me la terra battuta si sollevava dal terreno in
imponenti volute, che si contorcevano su se stesse ascendendo al cielo.
Cercai di predire il mio futuro leggendo nelle forme che la polvere tracciava,
e mi lasciai affascinare dall’intricata danza delle particelle di pulviscolo,
finché parvero stabilizzarsi nella figura d’un uomo a cavallo.
L’arrivo d’una asmatica brezza rivelò che il cavaliere era fatto di carne, ossa
e metallo, e non era una creazione tessuta nella polvere dal mio subconscio
(alla faccia di Freud). Un detto afferma che “l’armatura del vicino è sempre
più splendente”. Mi accorsi che in questa situazione era d’una verità
incontestabile. L’uomo con cui avrei dovuto giostrare era semplicemente
superbo.
L’armatura era così lucida, che pareva accesa di luce propria, nonostante la
superficie del metallo fosse scabra per la molteplicità di intarsi che la
percorrevano. Il cavallo era uno di quei destrieri di rara possanza, nati e
cresciuti per la battaglia. Era nero come solo gli esseri fantastici lo possono
essere; completamente immobile, non tradiva alcun tipo d’eccitazione, e pareva
scolpito nel bronzo. Mi trovai a pensare che persino la sua lancia possedeva
una sorta di letale eleganza, prima di accorgermi che era del tutto identica
alla mia.
La solita tromba spezzò quest’istante di bonaccia, e il mio avversario cessò
d’essere un’istantanea per divenire un film a colori.
Mentre la mia anima razionale contemplava atterrita la tempesta che
s’avvicinava a velocità impossibile, il mio istinto piantò gli speroni nei
fianchi del mio stallone (era un ottimo cavallo, molti avevano imparato a
temerlo, ma mi sembrava così piccolo e fragile). Lottai contro la sensazione
che lanciarsi a spron battuto contro centocinquanta chili di carne e metallo
non fosse una buona idea, e cercai di trovare una debolezza nel mio nemico.
Solo un arcigno schieramento di piastre, borchie e giunture rispose al mio
sguardo.
Vincendo la resistenza del mio braccio, misi la lancia in resta, e mi preparai
all’impatto.
Non è vero che vidi negli occhi il mio sfidante, o che l’ultimo istante fu
interminabile: lo scontro fra i due fronti di tempesta si risolse in uno
spruzzo di schegge di lance spezzate prima che qualunque meteorologo potesse
prevedere quel folle momento. Vidi il mio avversario, ancora in sella,
ricomporsi e portare la sua cavalcatura all’altro capo della giostra, la
magnifica gualdrappa svolazzante al suo maestrale. Vidi anche me stesso a
terra, un colosso caduto dal suo piedistallo, il cimiero d’un brillante
turchese contaminato dalla terra d’un anonimo marron (Versace si rivolterà
nella tomba), il corpo in una posa innaturale, oserei dire futuristica.
Non aveva senso che osservassi quella scena dall’esterno, eppure non me ne
stupii.
Mentre il suolo sotto quel rottame che un tempo era me si tingeva di carminio,
realizzai che dovevo essere stato sbalzato di sella, e dovevo aver battuto la
testa in modo evidentemente fatale.
Tutto cominciò a sfumare, come se un pittore avesse gettato del diluente sulla
tela, e poco prima che tutto divenisse d’un invadente bianco, vidi davanti ai
miei occhi campeggiare la parola ‘FINE’.
Cercai a tastoni il telecomando e spensi il televisore.
Una breve occhiata all’orologio: già le cinque e mezza!
Mi alzai controvoglia dal divano, mi strofinai il volto e, preso il casco, mi
diressi verso la porta che dava sul pianerottolo.
Quattro rampe di scale dopo, inforcai lo scooter e uscii in strada.
Trenta metri di inebriante accelerazione, poi un semaforo rosso. Fermatomi,
alzai la visiera per dar sollievo al mio viso già accaldato.
Guardando innanzi a me, notai una moto, bloccata dal semaforo al lato opposto
dell’ incrocio. Nuova di pacca, lucida e fresca di concessionario, pareva
sfidarmi mentre innalzava le note quasi musicali del suo motore nel cielo
cittadino.
Quando il verde scattò, mentre la mia mente contemplava con reverenziale timore
quel concentrato di potenza, il mio istinto girò la manopola del gas.
Altrettanto fece la moto e, stranamente, mi parve per un attimo che ciascuno di
noi due avesse una lancia in mano.