Liceo Scientifico “Paolo Frisi” - Monza
Sono sul letto, sdraiata. Sono le 7.00, spaccate. La sveglia suona, ma i miei occhi sono
spalancati e fissi sul soffitto già da mezz’ ora. Il BI-BIP, di solito così
irritante e familiare, oggi è diverso, ha una musicalità nuova, solenne e
malinconica. Spunto la sveglia, mi alzo, vado in bagno: che strano, lo specchio
di fronte a me rimanda una immagine assurda, nota e inesplorata allo stesso
tempo. Sorrido, mi sorrido, mi consolo. Oggi è l’ultimo giorno di liceo, di
adolescenza, di serenità. Non ci posso credere, per quanto mi sforzi non riesco
a rendermene conto: 5 anni di scuola, compiti, interrogazioni, versioni,
trepidazioni, ansie, risate, sbadigli, appunti, inchiostro, chiacchiere, sogni,
banchi, registri, voti, temi, libri, diari, circolari, giustifiche, 5 anni di
secchiate e strizze, di incomprensioni e sintonia, ormai giunti al termine.
Con una serie di gesti meccanici, mi preparo: doccia, vestiti, colazione,
denti, trucco. Saluto mamma e papà, esco di casa e mi siedo in macchina:
stamattina ogni mio movimento è naturale e sacro; oggi presto attenzione a ogni
minimo dettaglio, cerco di godermi ogni istante.
Molti dicono che è quasi impossibile riconoscere i momenti davvero
significativi della propria vita mentre li si sta vivendo: io ce la sto
facendo, invece. Oggi è un traguardo, una meta, un punto d’arrivo. Sono
spaventata, o meglio, angosciata, come direbbe Kierkegaard: temo
l’indeterminato, temo quel mare di nebbia che si spalanca immenso davanti a me.
Mentre guido fino a scuola i miei pensieri galleggiano tra le nozioni che ho
assimilato in questi anni, in questo luogo. Parcheggio, chiudo la macchina,
guardo verso il sole e sorrido. Ecco due primini, la cartella a forma di
parallelepipedo sulla schiena incurvata (ma che cavolo c’avranno dentro?! E’
l’ultimo giorno di scuola!!!), mi guardano in modo strano, timidamente,
sembrano quasi in soggezione. Per un attimo ho l’istinto di andare lì a
parlarci, fargli un bel discorsetto da veterana, qualcosa di paternalistico tipo
“Ragazzi, godetevi ogni giorno di liceo, anche quello che sembra più grigio,
perché quando tutto sarà finito rimpiangerete ogni minuto trascorso in questa
scuola, coi vostri compagni, e magari anche coi vostri prof.”; per fortuna
rinsavisco in tempo e tengo a freno la lingua. Continuo a camminare, saluto il
bidello, il cui sorriso storto e trasognato sembra una metafora del mio stato
d’animo, un vero e proprio “guazzabuglio”. Oh mamma, adesso pure Manzoni ci si
mette... ma che cosa mi succede? Sono malinconica e patetica in ogni mia frase
mentale, sto attenta a formulare ogni mio pensiero come se fosse il monologo
interiore di qualche personaggio adolescente di un telefilm americano banalotto
e sentimentale.
Gradino, gradino, gradino, un altro, un altro ancora; primo piano, secondo
piano; cammino, saluto facce note, arrivo davanti alla mia classe. Il cuore mi
batte forte, in maniera spasmodica. Che strano, la porta è chiusa, e non si
apre. Spingo, cerco di abbatterla a spalIate, voglio resisterle, voglio
annientarla: così blu e robusta, si oppone silenziosa e testarda ai miei
sforzi, alle mie lacrime, ai miei sogni. Voglio entrare, stare coi miei
compagni, litigarci e abbracciarli. Inizio coi calci, coi pugni, con le
gomitate... arrivo persino alle testate. Non sento dolore, non sento
stanchezza, voglio solo entrare.
Con un impeto sovrumano, commistione di ansia e accanimento, mi getto contro la
porta, e questa volta ci riesco: si apre, io cado in avanti, inizio a
precipitare. Sempre più veloce, il vento sulla faccia, il cuore in gola. E poi
ecco, è un attimo: non sto precipitando, sto volando. Sotto di me il paesaggio
è coperto dalle nuvole, ma la luce diffusa rende l’atmosfera rassicurante. Non
vedo dove sto andando, non so quale sia la meta del mio folle volo, ma continuo
comunque ad affidarmi all’aria. La libertà mi dà forza, ma allo stesso tempo mi
rende prudente. Ripenso al luogo da cui sono partita, alla mia scuola con le
sue atmosfere grigiastre e i suoi muri rassicuranti, che fanno tanto casa e quotidianità.
I miei voli pindarici, fisici e metafisici, rallentano; qualcosa mi tira verso
il basso, verso la realtà, verso il paesaggio definito. La forza che mi attrae
a terra è accompagnata da una musica, una melodia stridente, irritante e
familiare. Non sento più il mio volo, né il mio corpo. Precipito di nuovo,
confusamente. Perdo e riacquisto coscienza. Il suono ipnotico mi cattura, per
quanto io cerchi di resistergli, di non ascoltarlo, di negarlo al punto da
convincermi che non esista.
Ci provo, ci provo, ma non ci riesco.
Spalanco gli occhi, e mi sento smarrita.
La sveglia sul comodino è impazzita, squilla furiosa e reale. Sono sdraiata a
letto, con la luce del mattino che filtra dalla finestra. Mi rigiro tra le
coperte, intontita e straniata, con un sapore amaro in bocca, la tristezza che
mi pervade, un’ansia strana.
Mi giro verso il comodino e d’un tratto realizzo: oggi è lunedì, fuori fa
freddo e c’è pure il compito di mate alla prima ora... Ma quando finisce ‘sto
cazzo di liceo?!?!