Liceo Scientifico “Paolo Frisi” - Monza

Premio Letterario “Federico Ghibaudo”


“IL PRESAGIO DELLA FINE”
di Margherita Maspero - 5aC


Sono sul letto, sdraiata. Sono le 7.00, spaccate. La sveglia suona, ma i miei occhi sono spalancati e fissi sul soffitto già da mezz’ ora. Il BI-BIP, di solito così irritante e familiare, oggi è diverso, ha una musicalità nuova, solenne e malinconica. Spunto la sveglia, mi alzo, vado in bagno: che strano, lo specchio di fronte a me rimanda una immagine assurda, nota e inesplorata allo stesso tempo. Sorrido, mi sorrido, mi consolo. Oggi è l’ultimo giorno di liceo, di adolescenza, di serenità. Non ci posso credere, per quanto mi sforzi non riesco a rendermene conto: 5 anni di scuola, compiti, interrogazioni, versioni, trepidazioni, ansie, risate, sbadigli, appunti, inchiostro, chiacchiere, sogni, banchi, registri, voti, temi, libri, diari, circolari, giustifiche, 5 anni di secchiate e strizze, di incomprensioni e sintonia, ormai giunti al termine.
Con una serie di gesti meccanici, mi preparo: doccia, vestiti, colazione, denti, trucco. Saluto mamma e papà, esco di casa e mi siedo in macchina: stamattina ogni mio movimento è naturale e sacro; oggi presto attenzione a ogni minimo dettaglio, cerco di godermi ogni istante.
Molti dicono che è quasi impossibile riconoscere i momenti davvero significativi della propria vita mentre li si sta vivendo: io ce la sto facendo, invece. Oggi è un traguardo, una meta, un punto d’arrivo. Sono spaventata, o meglio, angosciata, come direbbe Kierkegaard: temo l’indeterminato, temo quel mare di nebbia che si spalanca immenso davanti a me. Mentre guido fino a scuola i miei pensieri galleggiano tra le nozioni che ho assimilato in questi anni, in questo luogo. Parcheggio, chiudo la macchina, guardo verso il sole e sorrido. Ecco due primini, la cartella a forma di parallelepipedo sulla schiena incurvata (ma che cavolo c’avranno dentro?! E’ l’ultimo giorno di scuola!!!), mi guardano in modo strano, timidamente, sembrano quasi in soggezione. Per un attimo ho l’istinto di andare lì a parlarci, fargli un bel discorsetto da veterana, qualcosa di paternalistico tipo “Ragazzi, godetevi ogni giorno di liceo, anche quello che sembra più grigio, perché quando tutto sarà finito rimpiangerete ogni minuto trascorso in questa scuola, coi vostri compagni, e magari anche coi vostri prof.”; per fortuna rinsavisco in tempo e tengo a freno la lingua. Continuo a camminare, saluto il bidello, il cui sorriso storto e trasognato sembra una metafora del mio stato d’animo, un vero e proprio “guazzabuglio”. Oh mamma, adesso pure Manzoni ci si mette... ma che cosa mi succede? Sono malinconica e patetica in ogni mia frase mentale, sto attenta a formulare ogni mio pensiero come se fosse il monologo interiore di qualche personaggio adolescente di un telefilm americano banalotto e sentimentale.
Gradino, gradino, gradino, un altro, un altro ancora; primo piano, secondo piano; cammino, saluto facce note, arrivo davanti alla mia classe. Il cuore mi batte forte, in maniera spasmodica. Che strano, la porta è chiusa, e non si apre. Spingo, cerco di abbatterla a spalIate, voglio resisterle, voglio annientarla: così blu e robusta, si oppone silenziosa e testarda ai miei sforzi, alle mie lacrime, ai miei sogni. Voglio entrare, stare coi miei compagni, litigarci e abbracciarli. Inizio coi calci, coi pugni, con le gomitate... arrivo persino alle testate. Non sento dolore, non sento stanchezza, voglio solo entrare.
Con un impeto sovrumano, commistione di ansia e accanimento, mi getto contro la porta, e questa volta ci riesco: si apre, io cado in avanti, inizio a precipitare. Sempre più veloce, il vento sulla faccia, il cuore in gola. E poi ecco, è un attimo: non sto precipitando, sto volando. Sotto di me il paesaggio è coperto dalle nuvole, ma la luce diffusa rende l’atmosfera rassicurante. Non vedo dove sto andando, non so quale sia la meta del mio folle volo, ma continuo comunque ad affidarmi all’aria. La libertà mi dà forza, ma allo stesso tempo mi rende prudente. Ripenso al luogo da cui sono partita, alla mia scuola con le sue atmosfere grigiastre e i suoi muri rassicuranti, che fanno tanto casa e quotidianità.
I miei voli pindarici, fisici e metafisici, rallentano; qualcosa mi tira verso il basso, verso la realtà, verso il paesaggio definito. La forza che mi attrae a terra è accompagnata da una musica, una melodia stridente, irritante e familiare. Non sento più il mio volo, né il mio corpo. Precipito di nuovo, confusamente. Perdo e riacquisto coscienza. Il suono ipnotico mi cattura, per quanto io cerchi di resistergli, di non ascoltarlo, di negarlo al punto da convincermi che non esista.
Ci provo, ci provo, ma non ci riesco.
Spalanco gli occhi, e mi sento smarrita.
La sveglia sul comodino è impazzita, squilla furiosa e reale. Sono sdraiata a letto, con la luce del mattino che filtra dalla finestra. Mi rigiro tra le coperte, intontita e straniata, con un sapore amaro in bocca, la tristezza che mi pervade, un’ansia strana.
Mi giro verso il comodino e d’un tratto realizzo: oggi è lunedì, fuori fa freddo e c’è pure il compito di mate alla prima ora... Ma quando finisce ‘sto cazzo di liceo?!?!


 

 

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