Liceo Scientifico “Paolo Frisi” - Monza

Premio Letterario “Federico Ghibaudo”
Primo Classificato sez. prosa

“PIETRA PIANGENTE”
di Sveva Anchise - 3a A

La notte era sempre più scura, meno sincera, più tetra e spaventosa. Ululati di cani in lontananza, fruscio di foglie schiacciate, lo sfrecciare veloce di macchine che vanno di fretta, luci di periferia che illuminano solo angoli lontani e lasciano che l'oscurità penetri in profondità, e lì solo il buio profondo. 
Inizialmente tutto quel distacco dal mondo esterno conferiva una certa pace, un senso di libertà, una sorta di privacy. Ma ora tutto mutava con una velocità tale da intimorire. 
L'esterno, l'estranio suscita angoscia, ansia, fobie incontrollate e insite nell'animo che mai si erano sospettate. 
Meno quattro gradi. Alle porte dell'inverno e già l'odore di freddo glaciale, di venti provenienti dal nord, il fumo che esce dalla bocca. Camminava lungo il ciglio della strada, a ridosso di un pallido muro di una villa ottocentesca; mp3 nelle orecchie, mani in tasca, cappuccio e sciarpa da coprire il viso, tuta e borsa da ginnastica. Irriconoscibile. Aveva tutte le sembianze di un giovanotto in età adolescenziale; peccato, che sotto i pesanti abiti si nascondeva una diciassettenne fragile, debole, carina e dagli occhioni grandi e verdi. Ignara del futuro, camminava a passo veloce in direzione nord; affannata, stanca, gote arrossate post partita, aveva solo il desiderio di buttarsi a capofitto in uno di quei piatti caldi del martedì sera a base di calorie. 
Si sentì stringere il collo, fu travolta da un senso di soffocamento: stava ansimando e aveva le lacrime agli occhi. Il secondo dopo fluttuava nell'aria, le mancò il terreno sotto i piedi: le braccia andavano a destra e sinistra, a penzoloni, come fosse una vecchia bambola. Aveva paura, una dannata paura. Le mancò la forza di gridare poiché la sciarpa di lana le bloccò le labbra. Spalancò gli occhi, non vedeva nient'altro che la strada scorrere veloce. Si trovò presso la porta buia d'entrata del parco cittadino quando riacquistò contatto con il suolo. Si voltò e guardò la paura in faccia: un ghigno maligno che la invitò a prestare silenzio, a non ribellarsi e ad ubbidire senza troppe storie; in tutto questo dalla tasca vide il luccichio di un coltello. Tacque. Camminava, piangeva, pregava il buon Dio di fare finire tutto in fretta. 
Si trovò a respirare l'umido fogliame senza rendersene conto. 

Una pietra grigia, dura. Un qualcosa di innaturale, ma che celava una propria forza: l'anima. 

Fu rivoltata; si trovò a guardare il cielo stellato. Poteva essere una bellissima sera, invece... 
Non riconobbe nulla, non distinse i tratti somatici del suo aggressore, ne ricordò solo l'odore e il sapore aspro. 

Era solita essere appoggio di anziani signori in passeggiata, coppiette innamorate che si scambiavano dolci effusioni; assumere le sembianze di un albero per i cani che correvano lungo il selciato, e invece ora era solo spettatrice. Una pessima spettatrice, poiché immobile e impossibilitata davanti alla scena. 

Chiuse gli occhi, sentì la zip del piumino scendere con foga. La zip della felpa scendere con più tranquillità; mani grandi e fredde insinuarsi sotto la sua maglietta rosea, accarezzarla con forza, stringerle i fianchi con avidità. La schiena le si ricoprì di brividi: piangeva perché già sapeva. Le mani scesero, le slacciarono il fiocco dei pantaloni grandi e bluastri del fratello maggiore. Afferrò la terra, i sassi e il fogliame circostante e con forza lo scagliò davanti a sé. Ricevette in cambio uno schiaffo duro, deciso. Non ne aveva mai ricevuto uno neanche dai suoi genitori, era la prima volta. 

Era sempre stata protagonista, o almeno spalla di piacevoli scene; ricordava momenti felici. Portava sul dorso scritte di amicizie eterne, di amori infranti, di risa giovanili; 
conviveva con muschio e umido addosso, ma nulla l'aveva mai scossa. Ora era pietrificata, scandalizzata e obbligata ad osservare la scena che le si sviluppava davanti. 

Le mutandine pulite e candide toccarono il suolo ghiaioso e sassoso, si sporcarono. Aveva freddo, ma non era importante. I pantaloni le raggiunsero le caviglie e solo lì si rese veramente conto che stava per cambiare vita, essere segnata per sempre. Quello agiva con sicurezza, con fretta, soddisfazione, ansimava come fosse un lurido porco, forse lo era davvero, anzi, lo era. Era soddisfatto, ridacchiava cercando di non emettere troppi suoni. Le rivolse solo due parole: "Collabora, altrimenti..." 
Continuò a piangere; la frequenza delle lacrime che le solcavano le guance si intensificò; il collo era umidiccio, il sudore e la sua disperazione si unirono in un'unica sostanza. 

Contrariamente da quanto si era sempre sostenuto, anche lei aveva un'anima, una facoltà intellettiva, la capacità di intendere e volere, peccato che le mancasse il movimento; era vigile, pensante, realizzava quello che le accadeva intorno e se ne faceva un'idea. Ora era terrorizzata, si auto-colpevolizzava perché non poteva agire, intervenire, porre fine a questo strazio. Assorta nelle sue considerazioni su quello schifoso uomo che le si trovava di fronte, si accorse del mutamento di scena: la ragazza fu posta sopra la panchina, non si muoveva, era agghiacciata. Sentì il suo debole peso sul suo dorso, l'avrebbe voluta inglobare per non farle subire nulla di tutto ciò, ma non ci riuscì. 

L'uomo le strappò via l'intimo e con una fragorosa risata si slacciò i pantaloni, li calò fino alle ginocchia; guardò gli occhioni verdi gonfi di lacrime. Il buio celava la nota di sdegno e paura che avvolgeva il volto della ragazza; le sorrise. Abbassò anche i boxer; le si avvicinò, le annusò il collo, i loro odori si mischiarono; le diede uno sporco bacio sulle candide labbra. Sorrise e le cinse i fianchi con rabbia. 
Si dimenò, cercò di risparmiarsi tale orrore, tale pena; non voleva essere succube di un uomo che neanche conosceva, subirne l'abuso. Non poté fare nulla. Sebbene utilizzò tutta la forza che aveva nel corpo per scappare, lui le immobilizzò le mani e le diede un morso tra il lobo e la mascella. Gli puzzava l'alito. Le sussurrò all'orecchio di non muoversi nuovamente se no sapeva a cosa sarebbe andata in contro, e abusò di lei. Penetrò il suo sesso, si impossessò della sua verginità e le diede il ben servito lasciandola sconvolta su quella panchina. 

La fredda pietra ascoltò tutto senza poter opporre resistenza: sentì il dimenarsi continuo, 
vario, della ragazza; i suoi gemiti di dolore, le sue urla soffocate nel nulla, le sue unghie grattare sulla roccia ruvida. Udì i gemiti di piacere di quel porco, la sua soddisfazione. Sentì la ragazza caderle addosso stremata; assorbì le sue lacrime, sebbene tutti la considerassero impermeabile. Fece compagnia al respiro nervoso, poco scandito, troppo frequente dell'adolescente; sentì la sua mano digitare i tasti del cellulare, la sua disperazione penetrarle internamente. Assistette all'arrivo della madre, mentre lontano nell'ombra l'uomo si godeva la scena soddisfatta. Fu felice di essere il sostegno di un abbraccio materno, ma fu anche schifata di essere stata il luogo di una violenza, il suo punto di appoggio. Si ricredette sulla sua funzione positiva, a fine benefico. Esaminò che quella notte era stata solamente un oggetto che qualcuno avrebbe ricordato per sempre per il male che aveva subito. Si rese conto che sebbene fosse solo una panchina stava piangendo. 

 

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