Liceo Scientifico “Paolo Frisi” - Monza

Premio Letterario “Federico Ghibaudo”
Primo Classificato


“LA BOMBA E LA CENERE”
di Alessandro Boggiani - 5a B

Ma ciò che lo ferì profondamente nell’orgoglio fu l’immagine di lei che si sporgeva da ogni foglio 
lontana dal ridicolo in cui lo lasciò solo, ma in prima pagina col bombarolo. 
(Fabrizio De Andrè - Il Bombarolo) 

Farewell the ashtray girl, forbidden snowflake. Beware this troubled world, watch out for 
earthquakes (. . .) Sometimes it’s faded, assassinated. For fear of growing old 
(Placebo - This Picture)


Aveva davvero importanza chi era stato il primo? No, in fondo, anzi, non ne aveva affatto. Chiunque avesse iniziato a definirla macchia, oramai quel nome gli era rimasto appiccicato cozza-style e al quartiere Rinotti (dal nome dell’architetto che lo aveva concepito) non importava molto. Il perché lo chiamassero così invece era chiaro: circondato da villette da Beverly Hills, si ergeva inquietante e dispotico esattamente al centro di quel piccolo centro abitato sperduto nella Bassa Padania. Era costantemente, perennemente accerchiato da una nuvola di nebbioso smog, e conteneva altissime case popolari ispirate chiaramente al Villaggio Coppola, ecomostro vicino Castel Volturno. A tutto ciò, andava aggiunto che era racchiuso in un raccordo autostradale sopraelevato, unico collegamento del paese con il mondo reale. Questo faceva sì che di notte, con le luci dei palazzi accese e le macchine sfreccianti intorno, la macchia assomigliasse all’Enterprise di Star Trek, attaccata dalle piccole, ma rapidissime, navicelle aliene. 
Quanto agli abitanti, invece il panorama era assai vario: extracomunitari, disoccupati, studenti, pensionati rimasti soli, nobili decaduti, un paio di ex galeotti e una pornostar fine carriera, sommariamente eletta a star locale. Nonostante il melting pot, nella macchia non c’era poi un grande tasso di criminalità, eppure l’unica volta che il quartiere aveva fatto parlare di sé nelle cronache locali, era stato perché avrebbero voluto costruirci un muro intorno. Un referendum abusivo aveva fermato l’iniziativa. 

Si alzò dal letto barcollando. Aprì la finestra e una luce inquinata investì la stanza gettandola in quel torpore generale da cui, da mesi, non si rialzava più. Guardando fuori, l’unica cosa cui riuscì a pensare, con una punta di rammarico, era che neanche quella notte era finito il mondo. Sperò quantomeno che le trombe dell’Apocalisse che aveva sentito la sera prima fossero quelle bitonali di un tir in sorpasso sul raccordo, guidato da un tizio che si chiamava Gabriele Arcangelo. Tutto sommato era possibile. 
Prima che alla faccia stropicciata, ai radi capelli di un castano stravagante, alla barba a chiazze, diede un’occhiata al panorama fuori dalle persiane, mozzafiato nel vero senso della parola, a causa degli idrocarburi disciolti nell’aria. Abitava al 5° piano di una cosa indefinibile, simile alle orrende creature contro cui faceva lottare Superman o l’Uomo Ragno nei suoi disegni di bambino, 30 anni prima. Solo che i suoi eroi vincevano, lui aveva perso e il mostro l’aveva inghiottito facendolo vivere nella sua pancia. Avendo la finestra esattamente sulla stessa linea d’aria dell’autostrada, non si poteva definire orizzonte quello che vedeva. Ma c’era stato un tempo, lo rivide per un attimo, in cui la vita gli era sembrata più facile di come te la raccontano. Una bella villetta in stile Beverly Hills fuori dal Rinotti, un bel lavoro, un bella moglie, un figlio, un sacco di perbenistica ipocrisia sociale. Per lui, in gioventù militante anarchico-insurrezionalista, tutto questo rappresentava un insulto, ma col tempo ci si era abituato e la vita borghese aveva smesso di fargli schifo, anzi. 
Poi tutto era svanito. Come era stato possibile? Lo sapeva eccome ma per il momento non aveva voglia di pensarci. Tanto sarebbe stata una giornata lunga. Eh, sì perché per lui quello era un giorno importante. Apri l’armadio, indossò jeans e maglietta degli Slayer e guardò la sua creatura. Adorava il suo nuovo lavoro, e si era dedicato con paterno amore a quei 7kg di tritolo oramai pronti all’uso che ora contemplava in poetica adorazione. 
Quei pochi chili erano ovviamente pochi per quello che aveva in mente, ma aveva preparato anche tutto il resto dell’operazione. Con quel tritolo si sarebbe trasformato in un kamikaze e avrebbe distrutto il municipio. Ma il detonatore era doppio e l’altro era collegato a distanza con 30 kg di materiale esplosivo vario, nascosto sotto la lattuga selvatica e il tarassaco, vicino a uno dei pilastri che sorreggevano il raccordo. Quella robaccia gli era costata quasi tutti i suoi soldi. Non poteva fallire. Non ora che la sua vita si era ridotta a quello. Si cinturò con le bombe e indossò un cappotto di lana con cappuccio in pelo di emu che, rifletté, al 21 di agosto poteva destare qualche sospetto. Ma tanto nella macchia vigeva una certa omertà menefreghista e nessuno si sarebbe chiesto nulla. Chiuse la porta facendola sbattere e quella, traditrice, per tutta risposta fece cadere la maniglia in ottone sul suo alluce destro. I piccioni terrorizzati scapparono dal cornicione. 

Lei era bellissima. Lo era sempre stata e glielo avevano sempre detto, nei modi più svariati. Alta, magra, lunghe gambe sottili, profondi occhi verdi e capelli biondo cenere. Un dea. L’unico difetto era il colore della pelle, che era sempre stata, più che rosea, grigiastra. Lo avevano attribuito ad ogni malattia possibile, ma ogni geniale opera di diagnostica medica era stata miseramente smontata dalle analisi. Quell’oscuro e innaturale pallore era solo un tratto somatico che l’avrebbe contrassegnata per sempre. Ma in fondo era splendida lo stesso, bastava farci l’abitudine. Inoltre il fatto di abitare nella macchia faceva si che il suo viso fosse in perfetta sintonia cromatica con gli edifici e con l’atmosfera pesante. Guardò la parete e lo vide lì, nello specchio, quel volto inespressivo e fuligginoso. Accanto allo specchio fermò lo sguardo ancora trasognato del dormiveglia, come tutte le mattine, sulla causa delle sue sventure, che se ne stava lì a sfotterla dalla sua bella cornice dorata. Laurea in lingue e letterature scandinave con master all’università di Helsinki. Un pezzo di carta inutile. Tanto tempo fa, tutto ciò aveva voluto dire emancipazione: dalla famiglia che la voleva medico, da un fidanzato che la voleva avvocato, dalle amiche che la volevano ingegnere. Ormai voleva dire solo disoccupazione e squallore. Ridotta dalla crisi degli alloggi a vivere nella macchia. Ma, d’altra parte, non poteva chiedere aiuto a nessuno. La sua famiglia se n’era scappata all’estero per ragioni misteriose, ai suoi “amici” non avrebbe domandato una mano neanche per portare fuori il suo pastore tedesco Selma, figuriamoci per salvarle la vita. Era sola. Anni prima, si era illusa che la vita le avrebbe lasciato spazio per i suoi sogni, per le sue speranze e aspettative. E invece il tempo era stato spietato, e non le aveva neanche fatto la cortesia di spazzare via tutto in un attimo. No. Aveva lentamente corroso la sua serenità, come le formiche divorano una carcassa. Si avviò verso un’altra giornata di routine: al calI center qualcuno le avrebbe chiesto di uscire a cena, qualcuno come si riparava una lavatrice, qualcuno cos’era un generatore Van de Graaf o qualche altra assurdità, e qualcuno che biancheria intima indossava. Tutti, per motivi diversi, con lo stesso tono ansimante. 

“Sei un fallito! Lo sei sempre stato! Ma come cazzo ti è venuto in mente di mettere in mano a quello stronzo di Rinotti tutti i risparmi della mia vita?” 

Ovviamente l’ascensore non funzionava, come d’altra parte nelle ultime 2 settimane. Evidentemente i suoi coinquilini avevano reputato che facesse troppo caldo per alzare il ricevitore e chiamare un tecnico. Avrebbe dovuto fare le scale, che con addosso svariati chili di esplosivo e un detonatore attivo non sono proprio il massimo della vita anzi, si avvicinano al minimo. 

“A parte il fatto che casomai sono i miei risparmi, visto che tu non smuovi il culo di casa tutto il giorno e devo mantenere la tua vita da gran signora. E comunque come facevo a sapere che quello era un imbroglione? Pensavo che essendo un famoso architetto, fosse un bene investire sulla sua società.”

 Noooooooo, quella grandissima rompicoglioni della vedova Salvatori con le borse della spesa. La salutò. Errore madornale. 

“Ma chi, Rinotti? Ma hai visto che cosa ha tirato su? Quell’orrendo quartiere popolare per poveracci e immigrati. Come potevi credere che avrebbe fruttato?” 

Mentre cercava di evitare che la signora Salvatori offrisse un tè a un futuro kamikaze che le aveva portato i sacchetti stracolmi in casa, si chiese chi avrebbe mangiato tutte quelle scatolette di prugne secche e cosa se ne facesse la signora di 12 tipi di spray per ambiente diversi. Forse li testava e allora le due cose potevano avere una connessione, ma preferì non indagare. Riprese a scendere, pregando Gesù Cristo, il profeta Maometto, il sommo Buddha e il dio lucertola samoano che nessuno lo toccasse sul fianco destro. 

“Mai sentito parlare di crisi degli alloggi?” 
“Non fare lo spiritoso, stronzo. Sposarti è stato il più grande errore della mia vita. Sei solo un perdente che ha fallito in tutto ciò che voleva fare nella vita. Dall’idealista ipocrita al grande imprenditore pieno di soldi. Ma sono pronta a rimediare. Domani tu esci da questa casa insieme a tutte le tue cose. E Simone resta qui con me” 

Tre ragazzi che tornano dalla serata alle sette di mattina ancora ubriachi. “Questa è sfiga” pensò. Non poteva arretrare ed era inutile pretendere che lo sgangherato gruppetto capisse la situazione. L’unica era affidarsi al caso. Si buttò a capofitto in mezzo ai tre. Coi primi due andò bene, ma il terzo, pilone dell’under 21 locale di rugby, lo scambiò per il mediano di mischia avversario e lo placcò. Liberatosi, rotolò fino al pianerottolo, salutò il mondo e si ripromise di riprovarci nella prossima vita. Ma il detonatore diede buca. 

“Cosa?”
“Hai capito benissimo. Ho già avviato le pratiche per il divorzio con l’avvocato. Ci sto pensando da tempo, ma ti ringrazio per avermi dato una scusa” 
“Ma tu non puoi escludermi dalla vita di mio figlio” 
“Sono cazzi tuoi, dovevi pensarci prima” 

L’ultimo ostacolo furono i traslocatori che stavano liberando la casa del signor Moretti, deceduto qualche giorno prima. Prese un comodino sugli stinchi e una gamba di tavolo in testa, cercando di passare in fretta. Fortunatamente aspettarono per ritirare lo Steinway and Sons che il defunto amava suonare alle 4 del mattino, senza sordina, nelle sue veglie insonni. Al funerale non erano andati in molti.

Aveva portato fuori di casa i suoi scatoloni e salutato suo figlio. Quindi si era diretto all’agenzia immobiliare, sapendo ciò che lo attendeva: la macchia. L’ironia del destino era divertente da morire.
Aspettò la pioggia per non piangere da solo. 

Fu un flash. Ogni tanto le capitava. Senza motivo, senza preavviso senza logica. La memoria faceva di vent’anni un istante e la riportava indietro alla sua pubertà. A quando le era successo. Il ricordo era come una foto in bianco e nero, sbiadita, ingiallita dal tempo, che però riusciva a conservare forza, che la colpiva sempre, che si imprimeva vivida nella sua anima. Aveva 12 anni e sul viso neanche un’ombra, ma solo la candida ingenuità di coloro ai quali, per il momento, il mondo è stato risparmiato. Le foto, da una, divennero molte e scorrevano sempre più veloci, creando un movimento, in un flusso che lei avrebbe voluto fermare, arginare. Ma sapeva che era impossibile. Lei che si ferma dopo scuola a parlare con l’insegnante di ginnastica. Lui che la spinge nel magazzino degli attrezzi. La sigaretta spenta sul suo petto. Le mani sotto la maglietta. La perdita di tutto. La promessa di silenzio. 
Il meccanismo mentale che era scattato in lei avrebbe reso qualsiasi psicanalista un uomo felice. O disperato, dipendeva dai soggetti. Ma sicuramente sarebbe potuta diventare un caso clinico, se non avesse mantenuto la promessa di silenzio anche ora che il professor Costa era morto e aveva un meeting di atletica giovanile dedicato alla sua memoria. Infatti sulle prime non era stata affatto traumatizzata. Il tempo l’aveva trattata come al solito. Il retaggio di quell’evento si era manifestato nel tempo, in tutta una serie di manifestazioni deboli, ma significative. Nel suo non sapersi rapportare con sua madre. Nel suo non poter coltivare un’amicizia stabile. Nel suo inconscio odiare l’amore, al punto da non aver detto addio, anni prima, all’unica persona di cui le fosse mai veramente importato qualcosa, prima che un treno se lo portasse via. Ma soprattutto nella sua insana paura del futuro. L’idea di diventare adulta, di staccarsi dalla sua parte infantile che la proteggeva, era insopportabile. La bambina traumatizzata che era in lei si rifiutava. Ma il tempo non aveva fatto sconti e la sua infelicità si rifletteva tutte le mattine in quel volto grigio d’espressione e di colore. 
Il flusso dei ricordi era come un tir di allucinogeni. Uscì di casa e si vide immersa in un’aurea verdognola, tra piramidi capovolte e cieli di marmellata. Vide la musica e ascoltò i colori. Il suo vicino di casa, il geometra Rovelli, prese l’ascensore su un veliero. Sentì brandelli di discorsi: 
“Ma gli elefanti gialli producono termosifoni?” “Dipende dalle maniglie” 
“E se fosse una questione di eliche?” 
“Pendagli da forca! I senatori pensano solo a banchettare.” 
L’ultimo a parlare doveva essere stato il signor Mastandrea, ex docente di filologia affetto da Alzheimer. Recuperò le facoltà cognitive quando il portiere le chiese se avesse dimenticato lei un ombrello di pizzo nel locale biciclette. 

Stava sudando come un tacchino la vigilia di Natale, aveva pestato una cicca che rendeva appiccicosamente difficile ogni passo, era stato preso a borsettate da un donna paranoica che lo credeva un maniaco, benché i jeans spuntassero da sotto il cappotto. La vera sfida, pensò, era non suicidarsi prima di aver compiuto l’opera. Per strada, guardò le facce. Volti scossi, senza vita apparente, ammalati di paura. Lui avrebbe restituito loro rumore e disordine. Che male la testa! Ma che cazzo aveva quella nella borsa, il cadavere del marito? Camminò dieci minuti verso i cancelli della macchia, poi la vide.

Assistette, come sempre, al risveglio della macchia. Nei pochi passi che la separavano dal call center vedeva ogni giorno le stesse immagini. Lo smog imbiancava le luci e copriva l’orizzonte alla vista, all’udito, all’olfatto. Lentamente, i lampioni cedevano il passo. Il calore cominciava a salire dal suolo. Si girò senza motivo e puntò gli occhi su di lui. 

I loro sguardi si incrociarono dai lati opposti della strada, per un istante infinito e fecero breccia nelle corazze delle loro vite. Furono invasi da una sensazione che non conoscevano. Era come un calore inatteso, che faceva piacere nonostante i 35 gradi di umido inquinamento di quell’estate avanzata. Faceva piacere perché scioglieva il freddo che avevano dentro. Attorno a loro tutto si fermò: le macchine smisero di passare, i passanti di vociferare, gli ambulanti di urlare. Si udiva solo una radio gracchiare in lontananza una vecchia canzone, che loro non avevano mai sentito. 
Lei si liberò delle sue paure, che cadendo produssero un rumore sordo. Istintivamente fece un passo in avanti, verso la strada, incurante del mondo attorno che li guardava immobile, producendo scie di luce.
Lui nuotò negli occhi di lei e raschiò il barile della sua memoria per trovare altri momenti simili. Non ne trovò e mosse un passo in avanti. Si chiesero all’unisono se quella fosse la felicità. 
Sputando liquame dai tubi di scappamento, passò a folle velocità il 64 che usciva dalla macchia, che si frappose esattamente al loro sguardo e rischiò di investirli. Entrambi si voltarono e si scansarono, chiudendo gli occhi per la fumata nera. Quando rialzarono la testa e guardarono il marciapiede di fronte lo videro vuoto, occupato soltanto da un tizio con un ridicolo cappotto invernale e da una ragazza di uno strano colore..


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