Liceo Scientifico “Paolo Frisi” - Monza

Premio Letterario “Federico Ghibaudo”


“APPUNTAMENTO COL DESTINO”
di Vanessa Fanelli - 4a C


Aveva avuto tante fantasie da piccola. Tanti sogni. 
Tante passioni coltivate e poi, abbandonate lì a metà. 
Ora stava percorrendo una strada. Non si poteva dire che la conoscesse bene perché, se si fosse distratta anche solo un momento, si sarebbe persa nella macchia selvaggia di cunicoli e strade campestri che attraversano, come vasi sanguigni, il corpo della Vecchia Brianza. 
Aspettava un cartello. Quelli arancioni, con stilizzati sopra una bambina nera, dalle trecce infiocchettate, che tiene per mano... un fratellino? Me lo chiedo perché non credo che per puro spirito materno una ragazzina prenda per mano un qualunque bambino per fargli attraversare la strada. Effettivamente era un po’ sessista come cartello: perché dobbiamo essere sempre noi donne ad occuparci dei bambini? Perché non c’è un uomo che vada in maternità, che si prenda due mesi di riposo dal lavoro, per stare col proprio figlio appena nato? Sì, se fosse diventata un ministro (di che cosa non lo sapeva ancora, ma tanto che cambiava?) avrebbe fatto sostituire quei cartelli. Sì, l’avrei fatto. Ma intanto doveva aspettare di vederlo per poter girare a sinistra. 
Un dosso. Due dossi. Niente più dossi. E quel cartello incriminato non arrivava più. Qualcosa non andava. Fece un amaro respiro -Ah ... - con la bocca appena appena aperta in una smorfia di rassegnazione, prima di ammettere che: aveva sbagliato strada. Guardò sia nello specchietto di destra, che in quello di sinistra prima di accostare, mettendo la freccia, anche se non c’era nessuno. 
I lampioni scarseggiavano. 
Un sentimento di angoscia cominciava a penetrarle nel cuore, ora che era nell’ombra tra due lampioni. Poteva lasciar andare la macchina un po’ più avanti, in modo tale da essere sotto la calda e rassicurante luce di quei soli della notte. 
Ma non lo fece. Stette lì, con quel sentimento di impotenza che le ingrigiva il cuore e le toglieva la voglia di vivere. E le piaceva restare rassegnata in quella condizione informe. 
Faceva respiri profondi, per esistere. Ma era come se stesse affogando. Non riusciva più a venirne fuori. In realtà era un bel pezzo che non viveva più, che non provava più emozioni, che non guardava più il cielo e non si meravigliava più di non veder le stelle... 
Le veniva in mente una poesia di Prévert, mentre pensava a tutto questo. 
Che fosse un’umida speranza? Una piccola fiammella nutrita del proprio luccichio? 

Déjeuner du matin. Quelle parole illuminavano come fiammiferi gli invisibili arabeschi di quel mare di pece. 

Prese il telefono. 
Cercò nella rubrica un numero, perché non aveva voglia di impararlo a memoria, anche se lo componeva almeno dieci volte al giorno. A cosa sarebbe servito d’altra parte? Non l’avrei più chiamato, un giorno. Un giorno, sarebbe cambiato, un giorno ... 

Il a mis le café 
Dans la tasse 

Il numero era sul display 

Il a mis le lait 
Dans la tasse de café 

Lo chiamò 

Il a mis le sucre 
Dans le café au lait 

-Pronto? 

Avec le petit cuiller 

-Sì? 

Il a tourné 

-Sono io. Ti va se vengo a casa tua? 

Il a bu le café au lait 

-Con C-A-L -M-A 
- No, è perché... Ah! Sono dietro a casa tua e quindi, se volevi. Ecco... (Respira, ti prego!) potevo venire. 

Et il a reposé la tasse 

-…

Sans me parler 

-Ma, se non vuoi torno a casa. (Non mi dire di sì... ) 

Il a allumé 
Une sigarette 
Il a fait des ronds 
Avec la fumée 

-No. 

Il a mis les cendres 
Dans le cendrier 

-Vieni. 

Sans me parler 

Brividi. 

Sans me regarder 

-Ok... 

Il s’est levé 
Il a mis 
Son chapeau sur sa tête 

-Ok. 

Il a mis 
Son manteau de pluie 
Parce qu’il pleuvait 

Le tremavano le labbra. 

Et il est parti 
Sous la pluie 

Lui riattaccò. 

Sans une parole 

Lei no. 

Sans me regarder 

Io no. 

Et mois j’ai pris 
Ma tête dans ma main 
Et j’ai pleuré. 

Avrei voluto piangere, ma non l’ho fatto. Avrei voluto accendere la macchina, girare il volante e gettarmi in quel fosso che costeggia la strada. Avrei voluto farla finita con quell’esistenza insulsa. Avrei voluto... ma non l’ho fatto. 
Avevo tante fantasie da piccola. Tanti sogni. 
Tante passioni coltivate e poi, abbandonate lì a metà, perché non ho mai preso una decisione, non ho mai assunto una forma. E sono rimasta così, come quella macchia dai contorni frastagliati ed indefiniti allo stesso tempo, che si crea quando teniamo la punta della biro troppo a lungo schiacciata sul foglio di carta, nella speranza di scrivere qualcosa. Nella speranza di cambiare forma e diventare una parola. Non importava quale, un qualsiasi accostamento di consonanti e vocali, anche senza senso, sarebbe andato bene, perché avrebbe voluto dire che io ero diventata qualcosa. Allora avrei saputo davvero che cos’è vivere per un istante, oh, almeno uno, uno qualunque prima di…
E invece ero lì, in quella macchina, col telefono in mano e la pioggia sul cruscotto, a cercare quel cartello arancione. 
Il mio appuntamento perso col destino. 


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