Liceo Scientifico “Paolo Frisi” - Monza

Premio Letterario “Federico Ghibaudo”


“ ”
di Alba Sommerschield - 3a E


Fu forse l’amara e deridente luce del Sole di Marzo a farla passare dalla notte del sonno a quella della veglia. Un delicatissimo bussare immateriale alle porte delle sue palpebre, e la sua mente si strascicò con passo ozioso da una situazione d’inconscio a una recettiva. 
Il sonno era la sua requie, quando poteva fingere di tenere gli occhi chiusi per bisogno di riposo; era quando tutta la gente stava con le persiane delle pupille serrate a galleggiare languidamente nel proprio subconscio, e così lei era finalmente uguale a loro; era quando tutte le persone sognavano in sincronia, desideravano rimpiangevano speravano ripensavano ardevano soffocavano e allora lei danzava con loro nel loro vizioso cabaret mentale; era quando il buio era cruccio e minaccia per tutti, e ciascuno doveva intraprendere la propria battaglia contro la penombra, e così lei non si sentiva più l’unica a dover fronteggiare l’angoscioso duello. Col tempo aveva imparato a convivere con il suo stato problematico, anche se spesso, insopportabilmente, la paura le rodeva l’anima dall’interno, come l’acido la carne, spumeggiando e sfrigolando. Era l’impossibilità di correre che la sconvolgeva, anzi, l’incapacità di fuggire. Il buio, mantello di Incubo e telaio di Inganno, intessuto con maestria da Menzogna e Fallacia; il buio, inflazione di speranza e spaccio di vuoto; il buio, che è Morte; questo e altro inondava le sue viscere, e, nonostante ciò, non poteva fuggire. Correre, scappare, e dove? Quale direzione l’avrebbe portata alle nebbie diradanti, e quale alla propria elisione? Forse -si ritrovava a pensare, brancolando nell’oscurità di un’altra alba- procedendo alla cieca, un altro “incidente” (come diplomaticamente denominava il proprio inizio della fine) stavolta avrebbe completato l’opera iniziata sette mesi fa: stavolta niente più salvataggi miracolosi, ricoveri nell’ospedale di Fukushima, danni permanenti ma non terminali, traumi sensoriali senza morte violenta. Eppure ciò che era terminale, e ormai terminata, era ciò che era per lei la sua vita, nonché il suo hobby, la sua passione, la sua professione, quello che ora sarebbe stata l’unica via di uscita dalle ombre nemiche che la asfissiavano e la laceravano dall’interno. 
Stamattina, a differenza delle altre notti, Amish si ricordava lucidamente i propri sogni. Non che ci fosse molto da ricordare, generalmente: che cosa può sognare una persona che non può vedere i colori e le forme del mondo, cose di cui il Sogno stesso si alimenta, carburante per l’immaginazione, gomitoli di seta trasparente per la trapunta variopinta della mente assopita? Perciò, il nutrimento per i sogni di Amish era il Prima: il suo cervello cardava ogni notte il groviglio lanuginoso del suo passato, pettinava ogni nodo ogni spirale ogni impurità della matassa della memoria, alla ricerca ossessiva di un appiglio al quale poter appendere lunghi ed intricati fili dei propri fragili sogni. Il sogno di stanotte, per quanto indistinto, rimaneva vivido nella memoria di Amish, e, stranamente, lo sentiva pieno e gonfio dentro di sé, pulsante e tangibile. 
Il suono del campanello trapanò l’aria, fastidioso quanto futile, siccome contemporaneamente si udì il suono graffiante di chiavi nella serratura, tre veloci scatti verso sinistra, estrazione delle chiavi, abbassarsi della maniglia e cigolante aprirsi della porta, quest’ultimo accompagnato da un sonoro “Bon jour!”. Amish sospirò con aria martirizzata, così la voce riprese con il più consueto giapponese: “Nessuno che apprezzi le mie doti linguistiche... Eccomi che arrivo a punire la tua insolenza, dolcezza”. Il suono allegro e civettante giunse quasi assordante in contrasto con il silenzio assoluto della notte, e variava d’intensità con lo spostarsi della fonte: dall’ingresso al corridoio e infine, suppose Amish data la lontananza, la stanza da letto. “Dove ti sei nascosta?”, si alzò di nuovo la voce, e dal ticchettante suono di passettini sul parquet Amy si preparò ad essere scovata. “Eccoti qui, ti ho trovata!” giunsero gli accenti vittoriosi, “Cosa ci fai qui?”. E Amish le disse che quella notte le coperte del suo letto avevano tentato di strangolarla di stringerla fino a toglierle il fiato e allora le aveva scacciate a gran voce e che loro la capirono e la guidarono fino al divano davanti al balcone e lì si era assopita di nuovo e stavolta i cuscini erano docili e l’avevano tenuta nel loro abbraccio e l’avevano tenuta al caldo fino al mattino e fino a quando il suo sogno di tenebre fu perforato dalla realtà di ossidiana della mattina. Terminò il suo racconto con una risata vuota. Makiko annuiva cortesemente durante la narrazione, ascoltando attentamente lo sciabordare delle onde che estendeva le sue nodose dita sotto la fessura della finestra che conduceva dal balcone al salotto. Mentre osservava i veloci scatti della testa di Amish, spassionatamente catalogò la giornata come una di quelle previste come difficili, ma, nonostante ciò, provò una di quelle ondate di affetto per la sua amica di quelle che i gentili sentono nei confronti dei più deboli. I movimenti del capo di Amish cessarono, e Makiko sorrise affettuosamente alla piccola figura sul divano bianco, annodata intorno ad un cuscino nero, le guance grigiastre ma tondeggianti, le labbra pallide ma piene, i capelli un nodo corvino disordinatamente scomposto sulla nuca. Si avvicinò a lei, e, sedendosi sul bracciolo della poltrona bianca, le chiese “Quindi, che cos’ha l’Oggi in serbo per noi?”, delicatamente accarezzandole il capo, distrattamente sfiorando le ancora visibili suture occipitali che infestavano il retro del cranio delicato. La domanda riscosse Amish, che girò di scatto la testa verso Makiko e, cercandola con le mani, stringeva le sue dita e tamburellava sul suo palmo, gesticolando sommessamente con l’altra mano, e intanto diceva che lei lo sapeva sapeva cosa voleva fare oggi ma non se lo ricordava e doveva riuscirci a ricordarlo perché era stato il suo sogno a dirglielo e i sogni della porta di corno sono quelli veri e quindi per tutto questo e altro doveva ricordarselo. Makiko aggrottò la fronte, osservando intensamente il viso conturbato della sua amica: che cosa voleva dire? Fu Amish ad esplicare le proprie parole: infatti improvvisamente si alzò dal divano, instabile sulle gambe pallide, e le sue mani cercarono spasmodicamente un appiglio, come topini bianchi persi negli oscuri meandri delle proprie gallerie dimenticate. Makiko tese un saldo braccio di sostegno ed osservò in silenzio mentre Amish, delicatamente aggrappata a lei con tocco di ragnatela, procedette lentamente attraverso la landa deserta del salotto, lo spoglio canyon del corridoio, il vuoto cubo dell’ingresso. Makiko estrasse dalla tasca del giubbotto le chiavi e, come cercando conferma, aprì la porta ed uscirono di casa. Una volta in strada, Amish si fermò, incerta. Intorno a lei, oscuri vortici la sbatacchiavano qui e là, graffiandole la pelle con unghie immateriali che incidevano la sua carne e tentavano di strapparle di dosso quella nuova risolutezza, confusa certezza. Makiko rivolse lo sguardo verso l’amica, notò lo scombussolato oscillare del suo corpo fragile e si chiese cosa fare. Improvvisamente un camion dai fianchi pitturati con sgargianti ideogrammi avvolse il tratto di strada in una densa coltre dall’olezzo di pesce, e i volti delle due donne si girarono l’uno verso l’altro, l’uno con espressione disgustata, l’altro interrogativa: 
“Pesce”, disse semplicemente Makiko. La stretta di Amish si fece improvvisamente più decisa sul braccio della sua guida, e con la testa annuì con fervore. Makiko si guardò intorno, setacciando il paesaggio urbano, scegliendo con cura le porzioni di essa con cui imboccare la mente e l’immaginazione della compagna. “Gatto nero” (e non l’altro bianco senza la coda...), Amish la incitava a proseguire; “Germoglio verde” (nessuna spazzatura intorno alle radici...), si incamminarono in una direzione casuale; “Tende di seta rosse” (le silouette dietro di essa che copulavano furiosamente...), lei annuiva con foga; “Kimono a tinte martin-pescatore” (il prezzo a nove cifre...), la stretta si faceva ferrea; “Rose su un tetto” (il giardiniere che recideva i boccioli carnosi...), ancora, diceva, ancora; “Gabbiano” (le ali incrostate di pece e nerume...), la piccola bocca si aprì incredula; “Oceano”. Solo l’Oceano. Il rullante, danzante, gorgogliante Oceano, fiero ma mite... Il loro cammino si arrestò con naturalezza, ferme nelle proprie impronte nella sabbia. L’onda della reminiscenza invase Amish, riempiendole le orecchie con il suono delle onde mormoranti, punzecchiandole le narici con la salsedine amara e così dolce nella gola, colmandole il petto e spiraleggiandole nelle membra; si lasciò riempire... ed espirò con un sorriso. Makiko vide il volto scarno voltarsi verso di lei, e si perse negli opali lattiginosi dei suoi occhi ciechi, per la prima volta spalancati e pieni di una luce che non veniva dal buio che la riempiva e che visibilmente la corrompeva ogni giorno, ma dal riflesso del cielo, quel giorno bianco e translucido e denso di nuvole compatte e spesse. E insieme a quello sguardo, Amish pronunciò la parola: Corriamo. E anche se nemmeno ora, sulla spiaggia tempestosa, dalla sua bocca non era uscito suono, Makiko ascoltò ancora una volta lo sciabordare delle onde che interrompeva il silenzio nel parlare della compagna; e il corpo di Amish naturalmente ricadde nel consumato ritmo beatificante della corsa, le sue gambe riconoscendo, dapprima lentamente, poi con più fiducia, il movimento lasciato per tanto tempo rilegato nei muscoli allora tanto allenati. Makiko la osservò allontanarsi lungo la spiaggia, lungo il mare scuro quel giorno stranamente quieto e innocuo... 
Erano le sette e trenta del tre marzo duemilaundici sulla spiaggia di Sendai, e quella sarebbe stata l’ultima corsa di Amish. 


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