Liceo Scientifico "Paolo Frisi” - Monza

Premio Letterario "Federico Ghibaudo”
Primo Classificato


"LE SUE MUSE IN CATENE”
Rodolfo Luigi Pessina - 5a H


La sua agenda era fitta di impegni, quella mattina, ma il tempo plumbeo quasi la invogliava a rimanere chiusa in studio, seduta sulla sua poltroncina, ad ascoltare gente mentalmente instabile, piuttosto che rimanere sola a casa. La dottoressa Elizabeth Frazer era vedova da talmente tanto tempo che ormai confondeva gli anni che erano passati dalla sua laurea in psichiatria con quelli trascorsi dal funerale del marito. Erano veramente tanti, troppi per una persona normale. Non avevano avuto figli, forse perché non li avevano programmati con abbastanza anticipo, o forse perché si erano semplicemente dimenticati di programmarli. Una persona normale si sarebbe circondata di amici o magari si sarebbe risposata, ma il suo lavoro le aveva insegnato che le persone normali purtroppo non esistevano e che quindi era inutile comportarsi come tale. Non che fosse troppo attaccata alla memoria di Sigfried — pace all’anima sua — per non cercarsi un’altra relazione, ma non ne sentiva semplicemente il bisogno. Non era mai stata una di quelle persone incapaci di rimanere sole con se stesse, anzi, trovava nella solitudine una pace indispensabile per organizzare i pensieri e per concentrarsi sui suoi pazienti. Nel caso in cui la malinconia la coglieva di sprovvista di solito rimaneva ad assaporarla e poi ne dipingeva i tratti su un foglio di carta, scarabocchiando con la matita parole e impressioni, magari lasciandosi trasportare da un po’ di musica. Era un’abitudine che aveva ereditato dalla sua adolescenza di ragazza cicciottella, le cui giornate erano piene di cattiverie e dicerie, pronte a buttarla giù. Si era detta che se fosse riuscita a scriverli, i suoi problemi, di sicuro le sarebbero apparsi molto più leggeri, se non addirittura ridicoli. Qualche anno dopo, quando ormai tutta la sua ciccia si era trasformata in fiducia in se stessa, quell’idea era stata alla base di una brillante tesina che si era diffusa a macchia d’olio nel mondo accademico della psicanalisi, e il nome che stava in copertina era proprio il suo: Elizabeth Frazer: "Lettere ai problemi, ovvero l’utilità della scrittura creativa nel rapporto col paziente”. Il metodo dell’epistolario Frazer era stato unanimemente accettato dalla comunità scientifica, anche se molti tendevano ancora a non servirsene a causa della loro scarsa capacità di intendere correttamente quello che il paziente voleva esprimere con la scrittura, nascondendosi dietro alle critiche. Quello era un metodo sperimentale certamente utile in psicologia, ma inaccettabile in psichiatria, dicevano. Su questo non vi erano dubbi, ma perché era necessario classificare per forza il suo lavoro dietro a quattro pareti teoriche? Perché non poteva essere utile anche a nevrotici, depressi e bipolari, ad autolesionisti e ipocondriaci? Elizabeth era una professionista e aveva creduto a tal punto nella portata del proprio messaggio da rischiare tutto e continuare sulla sua strada. Se non l’avesse fatto, se si fosse arresa, forse adesso sarebbe stata una di quegli analisti da quattro soldi che portano ai pazienti più danni che soluzioni. Ce l’aveva fatta: aveva trovato un metodo che le permetteva di raggiungere la fiducia e la piena comprensione del paziente in brevissimo tempo e questo dava fastidio ai suoi colleghi. La verità era che bisognava solo essere persone creative, perché ogni paziente aveva il proprio modo di raccontare la sua storia: novelle, romanzi, epigrammi, testi teatrali, persino qualche calligramma. Nei propri archivi aveva una raccolta di ritratti sfalsati, truccati, perfetti, cristallini, insomma, aveva un enorme dipinto dell’umanità più disparata che, per segreto professionale, non avrebbe potuto mostrare al mondo. Però, quando la tristezza la assaliva, si ripeteva spesso che, prima di morire, sarebbe andata da un buon editore e avrebbe fatto stampare tutto, giusto per il gusto di dimostrare i frutti del suo lavoro. Da un po’ di giorni erano però cambiate le cose. La solitudine aveva incominciato a darle fastidio, soprattutto quando il cielo d’acciaio, come quella mattina, pesava su di lei fuori dal vetro della finestra e non la lasciava respirare. I suoi nuovi casi erano più complicati di quanto avesse pensato all’inizio, perché per la prima volta si era trovata davanti qualcuno che riusciva a trasmetterle la propria ansia, in modo ossessivo, soffocante. Era naturale un suo coinvolgimento nelle vicende del paziente, un’empatia per cui era addirittura pagata, però quella volta era come se lei stessa vivesse in prima persona le loro vite. Aveva meditato a lungo sul perché ed era arrivata finalmente ad una risposta: tutte e tre le sue pazienti, pur avendo personalità completamente diverse, quasi agli antipodi sotto certi aspetti, avevano deciso di esprimersi nello stesso modo con cui lei si confidava da bambina: lettere ai problemi. Elizabeth si era sentita come scoperta, quando aveva letto le loro poche righe e le aveva commentate insieme a loro. Si era sentita esposta ai riflettori dei loro problemi e in quella posizione tutta la sua conoscenza teorica era vacillata, come se sul lettino avesse visto se stessa. Era una sensazione strana, quelle ragazze non erano certo lei, però le risvegliavano paure e preoccupazioni che per anni erano rimaste assopite. E cosa peggiore, ognuna di loro sembrava portarsi appresso una di quelle storie d’amore da favola, da vetrina di negozio urbano, da copertina di romanzo, e tutte le preoccupazioni, i dubbi, le ansie costituivano gli anelli di scintillanti collane che ognuna voleva mostrare al mondo, per darsi arie, inutilmente. Piuttosto, anelli di lunghe catene che si trascinavano dietro, facendo finta che tutto andasse bene, mentre ognuna soffocava a suo modo sotto il peso delle proprie aspettative irrealizzate. E adesso, siccome i loro polmoni non ne potevano più, tentavano di trovare conforto provando a stringere anche lei con quei lacci di ferro, come fossero collier d’acciaio. 

"Caro Cupido, siete tu e Robin Hood a non sapere amare, e forse un altro miliardo di persone. Stendete il braccio e scoccate la freccia, tutto il giorno, incuranti di noi, che vi aspettiamo, servizievoli, pronti a farci tirare dalla gioia, tendere dalla speranza e sibilare al minimo dolore. Non ci sapete amare, arcieri, e siete un miliardo o poco più su questa terra. E noi che ancora vi aspettiamo, servizievoli. Ma prima o poi ci spezzeremo, il filo della nostra vita ha un limite. Siamo solo archi, noi amanti, consacrati alla morte e al violino” 

Aveva una voce stupenda, Arianna, mentre leggeva quelle poche righe, con una naturalezza impressionante. Quando qualcosa le dava fastidio tendeva ad arricciare il naso oppure a portare al petto la mano, per stringere il ciondolino d’oro a forma di toro, il suo segno zodiacale e, a quanto diceva, il suo animale protettore. Quella mattina aveva scritto di getto quella missiva davanti allo specchio, la spazzola in una mano e la matita nell’altra, tanto che alla fine, indecisa sia sulle parole che sulla pettinatura era uscita di casa senza nemmeno osservarsi. Solo dopo, quando si era seduta sul tram si era accorta che aveva raccolto i lunghi capelli in una capocchia dietro alla testa e ai lati le scendevano due riccioli, in modo che il suo collo lungo e affusolato venisse messo in risalto. Un perfetto collo alla Modigliani, di cui andava fiera e al contempo cercava sempre di nascondere. Quando voleva enfatizzare una parola, muoveva il braccio sinistro e srotolava con le sue piccole dita quello che sembrava un lungo bracciale di stoffa, per qualche centimetro, e poi lo risistemava. Appena finito di leggere, si rassettò il vestito bianco con le mani, per nascondere la timidezza, ma qualcosa in lei apparentemente la spingeva a tenere lo sguardo avanti, quasi a sfidare Elizabeth con quegli occhi azzurri e cangianti. I secondi passavano e nessuna delle due rompeva il silenzio, come se la ragazza avesse detto tutto e non ci fosse nient’altro da aggiungere. La psichiatra osservava i suoi occhi, usurati da lacrime recenti, che contrastavano con quello che sembrava un carattere di fondo forte e deciso, come traspariva anche dalla lettera. 
— Cosa ne pensa, dottoressa? — le chiese Arianna, vincendo un timore che non sembrava appartenerle, un sentimento che sembrava accompagnarla da poco tempo. Non c’era molto da pensare, si disse Elizabeth, la questione era semplice: un amore finito male, che l’aveva portata a decidere di diffidare dell’intero genere maschile. Non che riporre troppe speranze in quelle scimmie poco evolute fosse la scelta migliore, però era troppo giovane per arrendersi e giocare a fare il cuore spezzato per il resto della sua vita
 — Che cosa le ha detto, il suo ragazzo, per chiudere la vostra storia? — le chiese, con tutta la naturalezza possibile. In casi come quello, in cui la personalità veniva frantumata insieme all’amore, c’era sempre la frase ad effetto, quella che spaccava cuore, rapporto e relazione in un sol colpo. — Beh, diceva... diceva... voleva — provò a dirle, spiazzata dal fatto che la dottoressa riuscisse a vedere così bene in lei. Dentro di lei ribollivano un sacco di emozioni e non si accorgeva che si stava scorticando il braccio, srotolando e riavvolgendo il lungo bracciale, che, a un’occhiata più attenta, risultò essere un filo sottile. Doveva essere lungo almeno cinque metri, a vedere da come era arrotolato intorno al suo polso, tanto da non far vedere le righe di separazione della pelle, e molto probabilmente si trattava di filo di seta, elastico abbastanza da permettere alla circolazione di continuare a scorrere. Elizabeth le lasciò qualche tempo per riflettere, per capire se riusciva a dirlo da sola. Il ragazzo doveva averla sballottata per bene, se le era così difficile parlare. Istintivamente, pur sapendo di andare contro alla prassi di distanza professionale tra paziente e medico, le fermò le mani che continuavano a passarsi il filo con quei piccoli movimenti ripetuti, quasi ossessivi. Non poteva permetterle di sprecare tutta l’ora della seduta, non in quello stato. Poteva però cambiare argomento per scoprire qualcosa di più e ritornare dopo su quel particolare, che in fondo poteva ancora aspettare.
— Arianna, dovresti... posso darle del tu?... Bene, dovresti smetterla di scaricare tutta la tua ansia su questo filo — le chiese gentilmente, però tentando di ristabilire di nuovo la distanza tra di loro, perché sentiva di essersi fatta troppo prendere dal suo carattere irrequieto. L’altra si osservò un attimo, per capire di cosa parlasse, poi, allentando i nervi, parve sorridere.
— Mi scusi, dottoressa, è un’abitudine che ho sempre avuto, anche prima di rivolgermi a lei — detto, questo alzò il braccio in modo che l’altra potesse vedere meglio alla luce — Vede? Questo filo è fatto di raso di Creta, e mi è stato regalato da mia nonna quando avevo otto anni. Nella mia famiglia è sempre stata tradizione, per una donna, di legarsi al polso il filo necessario ai ritocchi del proprio vestito da sposa. Sette metri di filo bianco —. Oppure sette metri di corda, che la soffocavano col peso dei ricordi. Bisognava vedere entrambi i punti di vista. Ma intanto Elizabeth aveva notato che il suo tono si era disteso e che stava incominciando ad aprirsi progressivamente. 
— Nel corso del tempo però è diventato un simbolo, per non perdermi, insomma, tra gli scherzi della vita. Mi aiuta ad andare avanti e a trovare la strada giusta in mezzo all’arena del mondo, quando la sfortuna ti salta addosso come un toro in una corrida —. Quel paragone era particolarmente azzeccato, nel suo caso, si ritrovò a pensare la psichiatra, e forse nel caso di tutte le altre persone. Arianna questa volta sorrise sul serio, illuminando la stanza di una luce che prima sembrava essere assente. — Particolare, come cosa — le rispose educatamente Elizabeth, che intanto ripercorreva nella mente quelli che potevano essere i suoi simboli, con scarsi risultati — Ma, ritornando alla tua lettera, dimmi una cosa. Perché a Cupido? 
—. Non si concesse neanche qualche attimo per rispondere. Lo sapeva bene. 
— Un dio dell’amore, maschilista, menefreghista e cicciottello, per giunta! Ahahahahah — la sua risata suonava cristallina, rispetto a tutto il panico che l’aveva presa qualche attimo prima. 
— Volevo abbattere un mito, per così dire, in modo poetico. Se lei fosse rimasta sola, insomma, a chi avrebbe rivolto le proprie lamentele, per farsi ascoltare? —. 
— A qualcuno che mi avrebbe ascoltato veramente, non a un angioletto paffuto — fu la sua risposta, anche se si accorse dopo di essere stata abbastanza rude. Non lo era mai stata con un paziente e questo la preoccupava, perché aveva capito di provare gelosia per quella lettera scritta così bene, rispetto alle sue, e soprattutto così, senza pensarci troppo — Ma di che cosa mi dovrei lamentare, in ogni caso? — le chiese, provando a riparare al danno. La mano di Arianna si spinse istintivamente al filo, insieme al suo sguardo. Ne srotolò una parte. Esattamente trenta centimetri, come se in quella distanza si potessero trovare tutte le risposte del mondo. 
— Beh, si potrebbe lamentare delle lunghe attese, degli sbalzi emotivi e dell’inganno che l’amore ha portato più volte. Oppure, come nel mio caso, si potrebbe lamentare di essere stata abbandonata su un’isola deserta, si potrebbe lamentare di non aver commesso nessun errore e di essere stata comunque scaricata. E infine — lo disse con una voce lieve, talmente bassa da riuscire a toccare i piedi del lettino — si potrebbe lamentare di avere paura che non ci sia più nessuno disposto ad amarla —. Per tutto il tempo aveva tenuto gli occhi bassi, Arianna, con le mani tra le gambe e i piedi che disegnavano strani simboli sul pavimento, con le ballerine nere. Però quell’ultima frase l’aveva detta puntandole le sue iridi glaciali addosso, per sottolineare quale fosse il problema in lei. Elizabeth di contro le diede la risposta che aveva dato a se stessa, quando suo marito era morto e aveva pensato che ormai era rimasta inesorabilmente sola. 
— Penso che prima di lamentarmi, avrei prima cercato la conferma delle mie paure, perché se bisogna lamentarsi, bisogna farlo bene —. 
Di sicuro la ragazza non si aspettava una risposta simile da una terapista, perché parve bloccarsi, ad osservare quella possibilità. Era in attesa del classico incoraggiamento ad andare avanti, pieno di falso ottimismo e cocci di speranza, maldestramente uniti insieme. E invece era arrivato un invito a procedere, a dimostrare che le proprie paure erano vere, quasi fosse una sfida. Elizabeth osservò con piacere l’effetto che aveva avuto su di lei, bisognava solo capire se avrebbe accettato la sua sfida. Esattamente in quel momento il timer che aveva sulla scrivania suonò la fine dell’ora 
La dottoressa Frazer fece per alzarsi, appoggiando le mani sui braccioli della poltrona. Ma, naturalmente, come si aspettava, fu fermata dalla ragazza. Aveva da dire qualcosa e per questo stringeva con la mano il filo. 
— Un giorno si è stancato di me e ha deciso che aveva bisogno di tempo e spazio per se stesso — Incominciò Arianna, tentando di descriverlo nel modo più impersonale possibile, anche se dentro di lei stava incominciando a perdersi in un labirinto di sentimenti — Penso sia normale, mi ha detto, chiedere a qualcuno come te di darmi filo, ne hai tanto. In fondo a cosa ti serve? Hai già abbattuto tutte le pareti dei miei labirintici sentimenti, e, se non l’hai ancora capito, io ho bisogno di rialzare i muri del mio dedalo. Dammi filo, continuava a dire, ti prego, lasciami volare via da te, per qualche giorno, non scapperò. Ho solo bisogno di un po’ di ossigeno per ragionare. Dammi filo, prometto che non romperò la rondella durante la mia fuga. Non chiederò al cielo di fulminarmi, così che quel filo con cui mi tieni legato non possa ridurti in cenere. Dammi filo, ti prego, sono un bravo aquilone, mi aveva detto. Talmente bravo che poi non è più tornato —. 
Elizabeth era stata zitta per tutto quel discorso, immaginandosi i due, uno affianco all’altra. Era un uomo pieno di poesia, quello che l’aveva abbandonata. Si rese conto che un discorso simile, avrebbe fatto soffrire chiunque, persino lei che si vantava di essere una fiera donna solitaria . Con un gesto molto lento, si tolse gli occhiali e li appoggiò sulla scrivania — La nostra seduta è terminata, Arianna, ci rivediamo tra tre giorni —. 
La ragazza si alzò, delusa da quella risposta e nel silenzio più totale si fece accompagnare alla porta. Prima che quella le si chiudesse alle spalle, ottenne però qualcos’altro. — Sette metri di raso di Creta. Non è che se ne hai dato un po’ a qualcuno, ora non ne hai più per il mondo. Lo hai scritto tu: gli amanti sono archi e a un arco bastano veramente pochi centimetri per tendersi —. 
Essere piantata in asso, su un’isola, in preda alla corrida del mondo e sottoposta al labirinto dei suoi sentimenti, con un solo filo a proteggerla. Quella era la catena che stava soffocando Arianna 

"Caro cuore, anatomicamente parlando non sei affatto l’organo delle emozioni, stai lì nel petto Per pompare il sangue, ti ricordo. In confidenza, sei diventato il simbolo dell’amore solo perché eri più semplice da disegnare rispetto al tuo amico cerebrale, l’informe insieme di talami, amigdala, ipofisi, ippocampo, insomma, il sistema limbico. Diciamocelo, che sia sentimento o ragione, chi comanda è sempre il cervello. C’è giusto una piccola cosuccia che non ti rende completamente inutile: il gruppo prostetico eme e quello che comporta. Ho detto tutto, ti saluto e ti auguro qualche colpo ogni tanto. Evitiamo gli emboli, per favore” 

Puro sarcasmo, che usciva da ogni papilla di quella lama a doppio taglio che era la lingua di Andromeda. L’ironia pungente e la sua estrema giovinezza erano le uniche armi che possedeva per combattere la monotonia del mondo. Quando voleva prendere d’assalto un luogo comune lo semplificava in modo abominevole, con la sua ampia conoscenza scientifica, e poi lo riponeva nell’angolo, come fosse stato un semplice giocattolo per la massa o uno di quei gingilli di porcellana, costruiti apposta per frantumarsi al suolo. Poi si fermava ad osservare lo spettacolo e, prima di mandare l’ultimo colpo a segno, lasciava al proprio "nemico” il tempo di rialzarsi e si ritirava sistematicamente, con un grazia mai vista. Elizabeth non aveva mai conosciuto una ragazza simile: avrebbe potuto scaraventare giù dal pantheon un esercito di divinità e l’avrebbe passata liscia, facendo arrossire il cielo con un candido sorriso. C’era un momento preciso, nelle sue dinamiche, in cui la sua furia si placava e la sua mente, inorridita dallo spettacolo, la portava a scappare lontano. Fortunatamente per lei, si era abituata a nascondere con naturalezza quell’attimo di spaesamento sia nei gesti, che nelle parole e il più delle volte le sue ritirate non venivano notate. — Ti sei scagliata contro un organo oggi. Come è stato fare a pezzi un cuore? — le chiese la dottoressa, alzando il sopracciglio per intimidirla, in modo da far vacillare la sua sicurezza. Era una tecnica che aveva dovuto adottare fin dalla prima seduta, dal momento che la ragazza non parlava se non aveva tra le mani una sfida ad armi pari. Ma non sembrava averla toccata minimamente. 
— Cosa? Mi scusi, ero poco attenta —. Infatti Andromeda stava giocando con uno dei suoi innumerevoli bracciali. Aveva le braccia completamente piene di quei cerchi d’argento, stretti, dal polso fino al gomito. Comunque si vestisse, in jeans e t-shirt, o con quel prendisole rosso che aveva addosso, si riempiva di quelle piastre metalliche, come fossero state le singole parti della sua armatura, e le allacciava insieme con un nastro colorato, scarlatto quel giorno. Se c’era una cosa che Elizabeth odiava, era non essere presa sul serio, visto che non poteva aiutarla se non veniva ascoltata. Si lasciò andare ad una domanda più personale, sicura che almeno avrebbe ottenuto una risposta. 
— Non so, decidi tu. Mi parli prima del cuore o di quei bracciali? — le chiese, sottolineando entrambe le parole in modo da avere la completa attenzione sulle sue labbra. 
Andromeda parve riflettere sulle implicazioni della propria risposta, mentre si passava un dito tra i lunghi capelli castani, arrotolandoli in ricci che scomparivano appena toglieva il dito affusolato. Qualcosa dentro di lei la spingeva a parlare di entrambe le cose allo stesso momento, tanto per dare fastidio alla dottoressa. Però sentiva di essersi spinta troppo oltre, in quel gioco e che era ora di smetterla, visto che se era lì, forse c’era un motivo. 
— Partiamo con la mia egida di braccialetti — disse, sbuffando, come chi si sentiva sconfitta. 
— Addirittura? — le rispose sempre rimanendo sulla difensiva, per capire se si era veramente arresa, o se quella era solo una finta. Andromeda non la ascoltò nemmeno, troppo presa a organizzare i pensieri, perché in quel momento stava facendo proprio quello che non aveva mai avuto intenzione di fare: restare sul campo, senza darsi alla ritirata. 
— Allora, come dirlo senza troppi giri di parole?... — titubava, e intanto tirava il nastro rosso, che dalle braccia aveva fermato in un elegante fiocco dietro alla schiena. — Io... io... non ho mai avuto nulla che mi riuscisse a proteggere, uno scudo o un’armatura. Non sono mai stata sempre così, ossessionata dal bisogno di combattere la banalità, ma mi sono dovuta abituare, nel corso del tempo —. 
Elizabeth osservò di nuovo il complicato sistema di difesa con cui le sue braccia erano agghindate, praticamente legate, provando a capire da che cosa mai una ragazza del genere, con il proprio sarcasmo, avesse bisogno di proteggersi. 
— Sembra paradossale, ma per molto tempo sono stata una di quelle ragazzine fissate con le favole, sa? Una di quelle bambine che cresce a pane e sogni, che si sdraia a vedere le stelle ogni estate insomma —. Lo disse come fosse stata una cosa sbagliata. 
— E poi? — le chiese la dottoressa, interessata da quella confidenza improvvisa. 
— Un giorno ho alzato la testa dal mio libro incantato e avevo ormai sprecato la mia pubertà ad illudermi, mentre tutto quello che avevo intorno sembrava così enorme e spaventoso. Ha mai provato a crescere, così, all’improvviso? Il mondo non è un regno pacifico, ma una battaglia continua e sono stata forzata a entrarci di colpo. Pensavo che nascondersi dietro a un po’ di ironia fosse sufficiente, ma c’era sempre qualcosa che riusciva a colpirmi, da dietro alle spalle. Dovevo proteggermi e mi sono costruita una corazza, bracciale dopo bracciale a costituire gli anelli di una cotta di maglia —. A un occhio attento, come quello che Elizabeth stava dando alle braccia della ragazza, quelli erano tutt’altro che anelli di una cotta di maglia. Disposti così in fila, stretti, intorno alla vita, sembravano piuttosto gli anelli di lunghe catene. — Da cosa dovevi proteggerti, Andromeda?— fu la domanda spontanea. 
— Dalle speranze che ho coltivato per anni, i sogni e i desideri infantili che ancora riaffiorano. 
Non si realizzeranno mai, ma quando penso di averli soppressi del tutto, eccoli che ritomano! — quest’ultima frase le era scappata, come se non avesse mai voluto farla uscire. La psichiatra aspettò qualche secondo prima di chiederle altro, perché incominciava a capire quanto fosse provata. Si concesse qualche attimo per chiarire del tutto la situazione, poi parlò. 
— Lo sai, vero, che quella che tu chiami difesa non è altro che una catena? —. La ragazza alzò lo sguardo e puntò i propri occhi cristallini in quelli di Elizabeth, come se fosse riuscita a entrare dentro di lei, a oltrepassare il muro del sarcasmo che aveva eretto. 
— Non è... — . 
— Andromeda, per favore, fammi finire! Ti sei scontrata con il mondo, ed è stata dura, lo capisco. Non c’era più il principe azzurro, pronto a salvarti dagli orrori e ti sei dovuta salvare da sola, armandoti di arguzia e ironia. Pensavi di difenderti dai sogni, soffocandoli con un lungo collier d’acciaio, una serpe di ferro pronta a stritolare le speranze? Pensavi che incatenandoti al terreno avresti impedito alla mongolfiera della tua mente di perdersi tra le nuvole? Cosa c’è di sbagliato nel continuare a sperare? —. Questa volta Elizabeth era stata diretta, come voleva essere, perché aveva già visto il bisogno di ritirarsi della sua "avversaria”, e questa volta, che era riuscita a farla aprire, non glielo avrebbe permesso. Intanto la ragazza la osservava, con i tratti del volto che si erano cristallizzati in una smorfia apatica. Intorno a lei persino l’aria sembrava essersi condensata in celluloide, a formare un universo parallelo bambinesco che le si era arrotolato intorno, come una specie di bozzolo. Cercò quindi di tornare alla strategia precedente, di sfruttare la sua intelligenza. — Sperare sempre per il meglio porta le persone a soffrire molto di più quando non riescono a realizzare i loro sogni. È come gettare una colata di cemento armato sopra al terreno su cui si è destinati a cadere —. 
— Destinati? E cosa avremo commesso mai, per cadere tutti? — le chiese la dottoressa, tentando di riportarla alla ragione, per farla smettere di nascondersi dietro a quelle difese inutili e fittizie che si era creata da sola. — Che peccato avrai mai commesso, tu, Andromeda, per porti intorno tutti quei giri di catene? Hai voluto sognare un po’ di più degli altri e adesso pensi di poterti incatenare a una scogliera desolata o alle pendici del Caucaso, come hanno fatto con Prometeo? E ciò che è peggio è proprio il fatto che nessuno ti ha mai obbligato: i legacci sono i tuoi —. 
Elizabeth non si era accorta però, fino a quel punto, che stava seriamente esagerando. Appena finì di parlare, col tono della voce che si era alzato notevolmente dal suo classico sussurro, si instaurò tra le due il silenzio iniziale. Il rossore alle guance confermava quanto si fosse scaldata, forse per nulla, visto che per qualche istante ebbe il terrore che le sue critiche fossero state lanciate nel vuoto. E invece no, non si era data alla fuga. 
— Mi sta forse accusando di stare recitando la parte della vittima?! — le chiese, con un improvvisa sicurezza, questa volta però vera — Come può formulare queste accuse sulla sola base di una mia lettera, sulla base di una mia critica alle smancerie romantiche di questo secolo?! Ecco cos’è il cuore! Uno simbolo stupido, fasullo, che trae in inganno le persone e capovolge la corretta prospettiva di vedere all’amore. Il mondo mi ha accolto, come un circuito elettrico pronto a fulminarmi in qualunque istante di impreparazione, passato a sognare. Perché non posso semplicemente smettere di sognare, ed eliminare così i miei problemi? E se anche tutto quello che dice fosse vero, chi è lei per togliermi questo diritto? —. Le parole erano uscite dalla bocca di Andromeda con una furia che non sembrava possibile in quella che prima era solo una bambolina di porcellana, passiva alle sue critiche. 
— Io sono la tua terapeuta — le rispose Elizabeth, evitando di aggiungere altra carne al fuoco, ma tentando allo stesso tempo di evidenziare quale era la sua posizione, nel loro rapporto. 
— Beh, allora dovrebbe comportarsi come tale, visto che la pago! Invece che continuare a dirigere un processo basato solo su mere supposizioni letterarie, mi porti delle prove scientifiche. Mi dimostri che sto sbagliando! Dottoressa Frazer, lei è una donna di scienza, si è laureata in medicina me ne dia una prova! —. Sembrava che tutto l’astio accumulato nelle loro sedute si fosse condensato in quella frase, pronta ad attaccare il suo onore e la sua laurea. Elizabeth non si scompose più di tanto, perché capiva di essere arrivata al fatidico punto di rottura con la sua paziente. Ora doveva sapersi giocare bene le sue carte, o l’avrebbe persa del tutto. 
— D’accordo, vuoi la tua oggettiva visione della realtà? Avrai la tua scienza! Vuoi sapere perché hai preso la scossa, quando sei entrata in quello che tu chiami il "circuito del mondo”? — le disse, lasciandosi prendere dal suo tono di voce. Poi, come se si fosse improvvisamente pentita, si liberò da quella rabbia e le disse come stavano evidentemente le cose. 
— Andromeda, tu sei un fusibile e il mondo ti ha modellato, dandoti le fattezze di un dispositivo in grado di proteggere il circuito della vita dalle sovracorrenti e dai corti. TI hanno fatto semplice, ricca di fantasia, per sbrogliare le matasse della gente, tra maglie e nodi: una cartuccia, attraversata da un sottile filo conduttore, con una portata amperometrica fissata, che metti alla prova ogni santo giorno. Non hai ancora capito che, forse, sei più importante di tutte le persone comuni, di quelle lampadine che soffrono e si lamentano e intanto brillano, pur non avendo sogni? Tu resisti, dietro alla tua armatura, ohm per ohm, per la loro luce. Tu stringi i denti, minuto per minuto, in attesa di fondere. Sarà stupendo, il momento in cui aprirai il circuito, perché, sai già che il tuo filamento si spezzerà, eppure non capisci che te ne andrai con la sicurezza di aver portato a termine il tuo compito —. Abbassò ulteriormente il tono della voce, perché quello che le stava per dire, forse, non l’avrebbe digerito facilmente. — Vivi di sofferenza, senza masochismo, sia chiaro, proteggi, tenendo duro e nel momento in cui ti accorgerai di non poter più sopportare questa tensione, questo enorme potenziale ai tuoi capi, farai vedere di cosa sei capace. La tua è una vita consacrata al suicidio, e ti ostini a scacciare la speranza, come una comune lampadina. Ti ricordo, sei solo un fusibile, ma, con le tue illusioni, per qualche attimo illuminerai comunque il mondo —. 
In un primo momento Andromeda non seppe cosa dire, troppo scossa da quella descrizione così perfetta, così scientifica e allo stesso tempo così poetica. Poi qualcosa in lei si ruppe del tutto, forse il filamento di rame del fusibile, forse la trama della sua corazza. Forse l’anello portante della sua catena. Dentro di sé aveva capito di essere stata sconfitta, sul terreno dove lei stessa aveva deciso di combattere. La bambina della sua infanzia incominciò a spingere, per uscire, per poter dire si, alla vita e al futuro delle sue favole. Incominciò a sentire i suoi occhi bruciare insistentemente, ma si controllò, perché, se aveva perso, ed era ora di ritirarsi, doveva farlo con grazia Nel puro silenzio, portò le mani dietro alla schiena e lentamente sciolse il fiocco con cui era fermato il nastro. Lo sfilò, pezzo dopo pezzo, e sempre, nel silenzio martellante, lo appoggiò sul tavolino di cristallo che era davanti a lei, come fosse stato un tributo, il segno di una resa senza condizioni. 
— Non starò qui un minuto di più, me ne vado — le disse, e si alzò, dirigendosi alla porta Non le importava nulla se l’ora non era finita, non voleva più stare là dentro. Era stato un errore. Non sarebbe mai tornata a sperare, neanche se l’avesse voluto, ormai, lo aveva detto la dottoressa, si era incatenata al mondo monotono che ancora tentava di combattere. Elizabeth non provò nemmeno a fermarla, perché sapeva che quella era la sua decisione. L’altra aprì la porta e prima di chiuderla la osservò per un attimo, come per chiederle come avrebbe fatto a tornare indietro, perché lei non riusciva a vedere, però si limitò a salutarla 
— Questa è la nostra ultima seduta, addio, dottoressa Frazer — le disse. 
— Spero tu riesca a capire da sola che ti sei messa in un’ottima posizione per poter tornare a sperare, Andromeda. Ti sei incatenata a uno scoglio, in mezzo alle onde, e ti sei circondata di preoccupazioni e rimorsi, quasi fossero i tuoi mostri più segreti. Hai un’unica chiave da provare: sperare che, prima o poi, l’amore arrivi, il tuo principe in sella a un cavallo alato, e che ti liberi, senza chiedersi se la ragazza che sta dietro a quelle catene sia un fusibile o una lampadina. Come è difficile sperare in qualcosa di così semplice, non è vero? In ogni caso, ci rivediamo tra tre giorni —. A quella sua affermazione, la ragazza si chiuse definitivamente la porta alle spalle. Esattamente un attimo dopo il timer scattò. Orario perfetto, dopotutto. 

"Caro amore, per caso ti hanno fatto anche un corpo? No, perché, se ci sei, io non ti ho ancora visto camminare in giro. Beh, si, ti incarni in qualcuno ogni tanto, però non devi essere messo bene di karma perché tutte le volte che chiedo di te mi dicono che non esisti. Non vorrei essere scortese, ma mi sa che ti hanno fregato con una banale esistenza astratta, nella mente delle persone. Non è un male, eh, le persone muoiono, tu almeno resti qui, con la mente. L’unico inconveniente è proprio questo: le tue persone muoiono. Posso innamorarmi di te, ma non so se posso innamorarmi di persone morenti. La gente che mi ha tenuta sveglia la notte, piena di aspettative, la gente che incarni, la portano via la malattia e il mondo. Diventa un soffice gregge, pronto a farmi addormentare, pronto a saltare la mia staccionata e svanire al di là, con il mio cuore” 

La voce di Lorelei ammaliava le persone senza che loro se ne accorgessero, perché sfortunatamente erano troppo occupate a guardarla in quegli occhi cerulei, coperti ogni tanto da qualche singolo ciuffo di capelli castani, chiari come la sabbia. Quella mattina, forse, lei aveva avuto più tempo delle altre per osservarsi allo specchio, perché quella chioma stupenda era raccolta in una sorprendente acconciatura, a riprodurre le pinne di un pesce quasi, fermata con un pettinino scintillante di madreperla. A Elizabeth venne voglia di sporgersi in avanti e all’improvviso toglierle quell’accessorio, giusto per osservare quella monumentale opera estetica cadere in un sol colpo, come una fila di tessere del domino. Ma di sicuro non sarebbe bastato quello per abbattere l’enorme fascino che quella ragazza emanava da ogni poro, con un semplicissimo vestito celeste, leggermente scollato e corto sulle gambe, ma semplice e liscio, un po’ come l’acqua. La sua era una bellezza fisica delicata, che non colpiva a un primo sguardo, ma solo con il tempo. Sembrava che quella ragazza se ne fosse accorta, perché ogni volta faceva in modo di mantenere il contatto visivo il più possibile, intanto che il suo interlocutore rimaneva imbambolato e non sentiva più il bisogno di allontanarsi da quel quadro perfetto. La verità era che Lorelei creava assuefazione, attirava le sue vittime e seducendole le incatenava a sé, senza che loro se ne accorgessero. Un’incantatrice, ecco come si era descritta, nella loro prima seduta, ed Elizabeth non le aveva dato torto. Ma se da un certo punto di vista bastava distogliere lo sguardo, per non venire affascinati, c’erano sempre le sue corde vocali, e purtroppo, per professione, doveva starla ad ascoltare. 
— Quante pecore hanno saltato la staccionata, questa settimana? — le chiese la dottoressa, con un certo interesse per quel paragone, così infantile e allo stesso tempo osé. Con pecore, naturalmente, intendeva ragazzi. Lorelei, si poteva dire, dava l’impressione all’altro sesso di essere la cosiddetta "ragazza facile”. Peccato non fosse così semplice. 
— Due — le rispose, donando a quella semplice parola una melodia tutta sua, per il solo fatto di aver aperto bocca — Uno martedì, l’altro venerdì. Sono venuti, hanno preso quello che volevano e poi hanno saltato anche loro la staccionata —. Se vi era una cosa sicura era che non ne era minimamente fiera, ma che il fatto di portarsi a letto tanti uomini le fosse quasi imposto. Questo Elizabeth l’aveva capito in poco tempo, ma sperava che quella volta sarebbe saltato fuori il motivo di quella sua costrizione. Non capiva il significato di quella sua sottospecie di mercificazione volontaria, se alla fine ne provava così tanto disgusto. Ma in fondo, non si era mai spinta avanti: poteva provarci ora. — Non mi sembra che questo ti sia piaciuto molto, come tutte le altre volte che mi hai raccontato. Vorrei solo capire, perché? —. La ragazza la osservò un attimo, per capire quale era il suo intento, per vedere cosa c’era dietro a quella richiesta e quei suoi occhi glaciali sembravano appunto scrutare all’interno della sua mente. Poi li distolse, e rispose nel modo più diretto possibile. 
— La prego, non mi fraintenda, non sono così disperata da andare con tutti. È solo che, senza volerlo attraggo le persone verso di me, come fossi un magnete, o una piastra da condensatore. Alle volte dubito che la forza di attrazione gravitazionale della terra sia più forte di quella che tiene la persone ancorate alle mie iridi. Il problema è che, a continuare a fare la parte del Sole, anche se si è il fuoco di un’intera galassia ellittica, si è inevitabilmente soli. L’unico modo che conosco, per limitare i miei momenti di abbandono, è giocarmi la parte che mi hanno dato, quella della ragazza facile, non so, forse perché appare più semplice, o forse perché, come ho scritto, non credo di potermi innamorare che dell’idea dell’amore, più che delle singole persone —. Elizabeth non fu colpita da quella perfetta descrizione intima, perché quello era tipico di Lorelei, cioè comprendere se stessa meglio di quanto avrebbe potuto fare lei. Era come se, da una parte, le stesse facilitando la strada, sottolineando la sua poca propensione alla solitudine, che però non sembrava costituire un problema per lei. Il difficile veniva quando Elizabeth tentava di capire che cosa in realtà volesse quella ragazza, perché, dentro di sé, sentiva che l’ansia non era sparita e che, in qualche modo, la sua paziente stava tentando di scaricarle addosso degli invisibili legacci. 
— E se ti chiedessi di descrivere questa idea dell’amore? — le disse, tentando di metterle i bastoni tra le ruote per vedere se riusciva a farla uscire allo scoperto da quella maschera di fascino e attrazione. Lorelei arricciò il naso, inclinò la testa di lato e nel compiere quel movimento impercettibile la sua acconciatura ondeggiò leggera, come la superficie increspata di un lago. Diede per qualche attimo l’impressione di essere stata sradicata dalle proprie fondamenta, ma fu solo un’apparenza. 
— Ci si innamora in due, come ladri pronti a tutto, e l’uno ruba all’altro il cuore, con un sorriso, mentre lo innesta nel proprio petto, perché sa di poter guarire dalla solitudine. Il rigetto può avvenire anche a distanza di anni ed è clinicamente imprevedibile. Ma per chi ha coraggio, c’è sempre la speranza di rimanere, alla fine di quella fiera che è la vita, con due cuori. E con un sorriso —. Quell’ultimo particolare lo aggiunse come fosse la prova schiacciante della propria ragione, sospirando, però non in modo triste. Bisognava proprio immaginarsela, sospirando, però non in modo triste. Era come se sapesse di aver detto un’ovvietà. Elizabeth rimase veramente spazientita da quella risposta, perfetta e misurata in ogni singola parola, perché le dimostrava ancora, per l’ennesima volta, quanto la prosa delle sue lettere fosse minimale rispetto a quella delle sue pazienti. Ma allora, quelle parole erano il simbolo di un’instabilità di fondo più grande o solo lei se lo stava immaginando? 
— E pensi di riuscire prima o poi a raggiungere questa idea di amore? — le chiese, per vedere se veramente ci credeva a quello che le stava dicendo, o se stava solo facendo poesia. 
— No, mai — le rispose senza un filo di malinconia, al massimo piena di fascino. Elizabeth stava incominciando a non capire più nulla. Si instaurò un silenzio fisso tra di loro, tanto che si poteva sentire la poltroncina della dottoressa cigolare sotto i movimenti ansiosi delle sue scarpe. Per quale motivo si era rivolta a lei? Aveva questa sua idea dell’amore, e non era minimamente sconvolta dal sapere che non avrebbe mai potuto realizzarla, perché la gente subito dopo spariva. Nel frattempo si riempiva di storie da una notte e via, pur sapendo di riuscire a convivere con la solitudine in ogni caso. Quale era il suo problema? Elizabeth si stava mordendo il labbro insistentemente, nella paura che anche quella seduta andasse completamente buttata via. Intanto la ragazza osservava il bel tempo fuori dalla finestra, e si abbandonava a chi sa quali pensieri, attendendo una risposta. Per qualche attimo si mise a canticchiare qualcosa di indefinito. Avrebbe potuto cantare chissà quale litania satanica, ma di sicuro lo avrebbe fatto come se quella fosse stata la più dolce delle melodie. La dottoressa ripensò a tutto quello che le aveva detto, passando a rassegna ogni punto delle loro discussioni, per trovare una crepa, qualcosa che le potesse dire dove stava sbagliando. 
— In giornate come queste si dovrebbe stare fuori, sdraiati al sole, in qualche campo. Da bambina mi piaceva molto fare il bagno al fiume, con i pastori che portavano a pascolare le pecorelle — le disse l’altra, con lo sguardo perso nel vuoto, ma pur sempre attraente. Improvvisamente, Elizabeth trovò esattamente il suo punto debole: le pecore. Nel momento successivo, automaticamente le venne in mente il modo in cui sarebbe riuscita a farla parlare. 
— Dovevi essere stata molto carina come bambina, a vedere da come sei adesso. Insomma, il tuo è un fascino unico, che da giovane io avrei potuto solo sognare. Sei attraente, sei bella, puoi permetterti qualsiasi cosa — le disse, anche lei sospirando, fingendo un’invidia che non le apparteneva. La reazione di Lorelei fu solo per metà quella che si aspettava 
— La smetta, la prego, mi infastidisce con questi complimenti — le rispose, alquanto seccata nel tono nella voce — Se vuole farmi arrabbiare per farmi dire qualcosa da analizzare, penso che ci sia riuscita. Ma mi sembra di avere sempre collaborato con lei, dottoressa. Non poteva direttamente chiederlo? —. Quelle parole sembravano provenire da una maturità che non si confaceva alla sua bellezza ed Elizabeth non poté che ammettere che aveva ragione, che nella sua fissazione di professionalità, non si era ancora spinta a fare la cosa più semplice, forse per orgoglio: chiedere. 
— È il tuo fascino, a non andare bene, vero? Che paradossalmente non ti permette di trattenere a te nessuno, per invidia o per paura? —. Paradossalmente Lorelei sorrise, annuendo con la testa. 
— Sa, all’inizio pensavo non ci sarebbe mai arrivata — le rispose la ragazza, sistemandosi un piccolo fermaglio a forma di conchiglia che aveva sulla spallina destra del reggiseno. — Non chiedo tanto, no? Trovare qualcuno che non scappi dopo avermi avuta. Lo ha capito finalmente! — e mentre parlava non si accorse che era saltata in piedi, gesticolando, così come poteva. Il suo respiro era diventato improvvisamente affannoso, come se dentro di lei qualcuno avesse aperto una diga. — Onestamente, è una maledizione! Quest’aspetto, questa voce! Qualcuno me li ha messi addosso, mi ha intrappolata in questo corpo, mi hanno incatenata con questo incanto corrosivo e fasullo! —. Stava incominciando a gridare, alzando le mani al cielo. Ma Elizabeth non la fermò nemmeno quando vide le prime lacrime rigarle il viso, perché sapeva di averla finalmente rotta, la diga che aveva in mezzo al lago della sua mente. E adesso si stava riversando tutto al di fuori. 
— Voglio qualcuno che resti, che si prenda cura di me, e ogni volta accetto avance, perché è l’unico modo che conosco per cercarlo. E dopo avermi avuta, sa cosa vedono dentro di me, gli uomini? Un vortice, pronto ad inghiottirli, una vedova nera che li attira e poi li uccide e scappano, scappano tutti —. Lorelei lo disse francamente, come per proclamarlo al mondo, con le iridi azzurre che contrastavano con il rossore dei suoi occhi. Poi si spense, riportando il suo sfogo tra gli argini. 
Passò qualche attimo, in cui la dottoressa rimase zitta, in parte perché non sapeva veramente cosa dirle, in parte perché provava rispetto per quella sua manifestazione. Era come se fosse caduta improvvisamente dal piedistallo su cui si trovava prima e adesso le stesse parlando alla sua altezza. — Una volta mi hanno dato della sirena, sa, perché dicevano che sarei riuscita anche a far naufragare Ulisse. E alla fine ci ho creduto talmente tanto che mi sono seduta sulla spiaggia, a vedere se quello era il mio mondo, se almeno lì avrei trovato quello che cercavo — le rivelò, come in confidenza, passandosi una mano per correggere le sbavature del trucco, che invece peggiorò solamente. Elizabeth si immaginò quella scena. Mare. Ogni giorno si svegliava e si sdraiava sulla spiaggia ad osservarlo muoversi. Non che lo trovasse interessante, ma lei stava lì, in mezzo al vento, senza fiatare. Si osservavano entrambi, l’Oceano e Lorelei, contendendosi l’infinito che stava aldilà dell’orizzonte e del suo sguardo. Poi un giorno si era alzata e non era più tornata indietro a combattere. Non la poteva amare, quell’abisso spumeggiante. Amare. A privativa. Mare. Quei pensieri così stupidi e poetici furono interrotti dall’allarme del timer, quello che prima aveva avuto tanta paura di sentire. La dottoressa vi appoggiò una mano sopra e lo disattivò, perché tanto quello era il suo ultimo appuntamento e poteva dilungarsi quanto voleva. Poi le disse quello che pensava. — È vero, affascinare il mondo è l’unica carta che ti puoi permettere di giocare. Ma ora te ne do un’altra io: la possibilità di dire di no a chi vuole venire a letto con te — si tolse gli occhiali, nel mentre, per vedere meglio i suoi occhi. — Vedono in te un mostro, vedono in te un vortice pronto ad affondare la loro nave e scappano! Dirai loro di no, li avrai avvertiti, ponendoti davanti una boa, un faro, e allora scapperanno, risparmiando tempo e dolore, di cui il mondo ha continuamente bisogno —. La ragazza la osservava, seguendo ogni sua singola parola, come se quello fosse stato un sogno lontano e improponibile e si alzò per prepararsi ad uscire. 
— Ok, rimarrò sola. E poi? —. 
— E poi arriverà un matto, che mollerà gli ormeggi davanti alla tua solitaria scogliera d’ardesia. Guarderà la tua boa e la parete di roccia su cui sarai risuonerà della sua risata. Attraverserà il gorgo che la tua attrazione gli metterà davanti, perché capirà che non c’è nessun mostro, nessuna sirena, oltre la catena di mistero e fascino che hai intorno. Lorelei, non verrai abbandonata su uno stretto di mare a dissanguare uomini, come Scilla o Cariddi, o peggio, ad innamorarti dell’amore —. 

Era arrivata mezz’ora prima e si era seduta su una panchina, al limite del parcheggio. Più volte aveva tirato fuori il suo foglio e tentato di scarabocchiare alcune parole, sistemarne altre, con scarsi successi e percorrendo metro per metro il filo che aveva al polso, per allontanare l’ansia. 
Rilassante, non è vero?, le aveva chiesto quella ragazza che stava ora seduta di fianco a lei, nello studio della dottoressa Frazer. Non credeva che stesse parlando con lei fino a quando non aveva alzato la testa e se la era vista proprio davanti. Posso sedermi di fianco a te? L’aveva osservata a lungo, per capire se era matta, poi aveva fatto cenno di si con la testa. Sai, anche io avevo un mio filo per proteggermi dal mondo. Arianna si era girata e finalmente l’aveva guardata negli occhi, facendo combaciare le sue iridi azzurre con quelle di Andromeda Continua, le aveva detto, finalmente interessata da quella ragazza così strana. Si, non era proprio un filo, era un’armatura, anzi una catena, insomma era un’armatura-catena. Aveva messo da parte il foglio, chiudendo la sua borsa e poi le aveva fatto cenno di continuare. Beh, dopo aver perso la mia battaglia, ho capito che mi serviva altro, per proteggermi e allora mi sono tolta il nastro che collegava tutte le piastre della mia catena. Aveva alzato i polsi per farle vedere due braccialetti di ferro, stretti, ma singoli. Questo è tutto quello che rimane della lunga serie di anelli che avevo. Arianna aveva osservato attentamente quei piccoli cimeli, pensando che la gente riusciva a nascondersi dietro a certi oggetti, alle volte. Ma subito aveva pensato a se stessa e a come avrebbe fatto senza i suoi sette metri di raso di Creta. Non capisco per quale motivo ti sia dovuta spogliare di qualcosa di così importante. Andromeda in un primo momento era stata muta, a ragionare, poi, anche lei, aveva tirato fuori un pezzo di carta pieno di scarabocchi. Ho capito di essermi solamente incatenata, lontano dai miei sogni. Poi erano state interrotte dalla terza ragazza, quella che adesso sedeva dietro di loro, come a formare un triangolo. Siamo in ritardo già di qualche minuto, adesso dobbiamo proprio entrare, aveva detto loro, arrivando di corsa e guardando l’orologio con insistenza. Arianna l’aveva guardata male, chiedendosi chi fosse quella poco di buono e con quale coraggio venisse loro incontro senza presentarsi, ma Andromeda sembrava averla riconosciuta, quindi non si scomodò a darle della maleducata. Lo pensò solamente. Adesso arriviamo, Lorelei, la dottoressa ci aspetterà di sicuro, siamo in tre. L’altra era tutta agitata e si avvicinò, senza fermarsi neanche un attimo, tenendo tra le mani un bigliettino tutto sgualcito che controllava ogni dieci secondi. È che voglio mostrarle una cosa e non vedo l’ora, scusate. Queste erano le due compagne inaspettate con cui si era presentata alla seduta quella mattina. Era una sorpresa, aveva detto la dottoressa, però l’unica che sembrava stupita era Arianna. Le aveva fatte sedere su tre sedie, invece che sul solito lettino, perché voleva provare un tipo diverso di approccio e soprattutto voleva che loro provassero a collaborare e a fidarsi delle altre. La cosa divertente erano le tre sedie, come le punte di un triangolo, su cui Elizabeth vedeva sedute tre ragazze fisicamente identiche, capelli castano chiari, occhi celesti, ciascuna vestita a suo modo e con la propria lettera pronta in mano. Quel giorno aveva però voluto preparare loro un’altra sorpresa. 
— Ragazze, ho apprezzato veramente molto la vostra collaborazione e i vostri progressi nelle nostre ultime sedute e ve ne sono veramente grata, soprattutto perché nessuna di voi ha deciso di abbandonare il percorso intrapreso — disse, guardando con un occhio di riguardo e un sorrisetto compiaciuto Andromeda, che, abituata a nascondere le sue defiances, arrossì solo leggermente. — Questo è un passo importante della nostra terapia e vorrei farvi capire che cosa significa per me avervi in cura, dato che, anch’io come voi ho sempre deciso di esprimermi attraverso lettere —. Le tre ragazze la osservarono attentamente, per capire che cosa avrebbe detto loro, ognuna nel suo modo particolare e personale, che andava a contrastare con il loro aspetto così simile. 
— Dovete sapere che quando ero all’università non ero molto convinta della scelta che avevo fatto, pensavo di aver voluto strafare e quindi, per farmi del male, ho voluto partecipare a una di quella conferenze di psicologia tenuta da uno dei tanti che erano usciti di lì e avevano fatto carriera. Uno studente gli aveva chiesto se vi fosse, nella vita di un paziente mentalmente disturbato, qualcosa di più temibile della solitudine o della noia. La sua reazione fu illuminante per me —. Lorelei si girò sulla sedia, appoggiandosi alla spalliera, per vedere meglio, mentre Andromeda e Arianna portavano la testa tra le mani, come due bambine pronte ad ascoltare una favola 
— "Oh, non sono né la solitudine né la noia ad uccidere le persone” aveva gridato in risposta. "Due sole cose uccidono le persone. Le malattie, ad esempio, uccidono le persone. Le prime due menzionate all’inizio, miei esimi colleghi, potremmo definirle cartine tornasole della sanità del paziente. Chi è malato non può star solo o in qualunque caso sentirsi annoiato. Cosa succederebbe se, per sbaglio, ipotizziamo, si fermasse a guardarsi allo specchio e a pensare a se stesso nel senso più ampio del termine? Cosa orripilante! La maschera della sua personalità salterebbe insieme a tutte le sue false certezze! La società di oggi ha bisogno di uomini con salde certezze per andare avanti, vere o false che siano! Per l’amor del cielo, chiudete Freud in un cassetto, insieme alla sua maledetta psichiatria! L’equilibrio emotivo non è fatto per i giorni nostri, dove cane mangia cane! Al massimo, come è giusto, sia prescritta al paziente qualche seduta da noi psicologi! Si sentirà meglio, non del tutto felice, ma, intendiamoci, questo lo sappiamo solo io e voi! Preservate le certezze e tutto andrà bene!” —. Le ragazze la guardavano da una parte come se stesse raccontando la storia del secolo, dall’altra sembravano non capire il nesso con la loro situazione. Elizabeth sorrise alla vista di quelle facce allibite e soprattutto per quello che stava per raccontare. 
— Tutti battevano le mani, estasiati da quella sua manifestazione. Però io non ero convinta del tutto. Alzai una mano e gli dissi che aveva affermato che due cose uccidevano le persone. Lui mi rispose, tutto indispettito dal fatto che una semplice laureanda gli avesse fatto notare le sua pecca. "Due cose, giusto. Semplicissimo. L’altra cosa che uccide le persone, sono le persone stesse” —. Appena ebbe finito di raccontare il silenzio calò nella stanza e per un po’ di tempo nessuno osò interromperlo. La prima che ci provò fu Andromeda, con il proprio immancabile sarcasmo. 
— Storia sorprendente, maaaaa... con noi cosa c’entra? —. La dottoressa le sorrise di rimando. 
— Se non avessi partecipato a quella conferenza penso che adesso nessuna di noi si troverebbe qui. Avrei mollato la facoltà di psichiatria e magari sarei diventata un avvocato. E invece mi sono voluta accanire per dimostrare che quel piccolo ometto urlante aveva torto. Le lettere che voi leggete, lo stesso metodo epistolare che porta il mio nome, non sarebbero mai nati se non avessi esitato nei miei dubbi. Apprezzo tutta la passione che usate in ciò che scrivete e volevo solo farvi capire che se oggi non state sdraiate su un lettino a parlare con apatia delle vostre emozioni è stato per uno stupido errore di calcolo giovanile. Gli errori di calcolo possono portarvi anche a qualcosa di buono, come potete vedere — disse loro, commuovendosi un po’, pensando che ormai era diventata troppo vecchia per quel lavoro, dal momento che si abbandonava cosi facilmente a quegli attimi di debolezza. E poi i suoi capelli erano cosi ingrigiti. Ma si riprese subito, con l’intento di dedicarsi alle sue pazienti, come la professionista che era. 
— D’accordo, ora passiamo a voi —. Neanche ebbe finito di parlare che Lorelei alzò il proprio braccio, con foga quasi, saltando sulla sedia e facendo spaventare le altre due che stavano alle sue spalle. — Con calma, nessuno ti toglie il posto! — la apostrofò Arianna, che non sembrava sopportarla, per il suo carattere da ragazza facile, cosi diverso dal proprio. Elizabeth non l’aveva mai vista così collaborativa e vedendo che le altre due non sembravano sbracciarsi all’idea di essere prime le diede subito la parola con un cenno della mano. La ragazza si alzò in piedi e la sua acconciatura articolata, fatta a pinne e conchiglie, ondeggiò lieve sotto l’impulso della sua vivacità. Si schiarì la voce con un colpo di tosse, più simile a un vocalizzo, nel pieno del suo fascino. Poi iniziò. 

"Cara attrazione, andava tutto bene fino a quando non hai deciso che nella mia vita avresti giocato la parte della seccatrice ingrata. Vivi negli abissi dell’anima, con quella fila di lame al posto dei denti, quell’enorme bocca tirata ai lati che ti dà le fattezze di un macabro clown. TI prendi gioco di me, ammantata nell’ombra, con quell’orrido sorriso di sfida sul volto. Sventoli la tua lucerna incantata, come se quella che presenti fosse una favoletta per bambini. Va bene, ammetto di non aver mai remato contro all’idea vaga di un nuovo amore, però potresti almeno evitare di mostrare tutte queste illusioni? Poi non dire di essere disprezzata gratuitamente! Il mare è mio e non permetterò mai a uno scarto degli abissi come te, a un pesce lanterna pronto a divorarmi, di catturarmi e di rendermi un semplice e stupido prigioniero d’amore. Mi innamorerò, a modo e a condizioni mie. E non sarò l’ennesimo pesciolino rosso che si fa chiudere in una boccia di vetro” 

Appena ebbe finito di leggere le due ragazze batterono all’unisono le mani, ciascuna con un proprio sentimento nel cuore. Andromeda pensava che con quelle parole avesse finalmente urlato al mondo e che si fosse liberata dei suoi problemi. Arianna era stupita da quella poesia e si chiedeva invece se anche lei sarebbe stata capace di tanto. Lorelei si sedette con un sorriso, accavallando le gambe di lato. Elizabeth la vide per la prima volta: l’ansia era sparita dalle sue parole. Il suo consiglio aveva funzionato perché mai come in quel momento le era sembrata così raggiante. Era a posto. 
— Il tuo faro ha spaventato le pecorelle? — le chiese nel loro linguaggio metaforico, certamente incomprensibile da parte delle altre. La dottoressa sapeva già la risposta, ma voleva sentire cosa le avrebbe detto, la ragazza facile che era rimasta sola. 
— Un giorno ero in libreria, non ci vado mai nelle librerie. C’era un uomo, seduto a un banchetto che presentava il suo libro, tentava di attirare la gente, ma non ci riusciva molto bene. Gli sono passata accanto e lui ha allungato una mano verso il mio gomito, cosi! — intanto che raccontava, mimava quella storia che sembrava averla cambiata — Mi potete dare una mano?, mi ha detto. Cerco una ragazza. Questa ragazza ogni sera torna a casa e non ha bisogno di spogliarsi dei suoi averi davanti allo specchio, perché tutto quello che ha è un sorriso e una felicità grande quanto la luna. E nel caso avesse proprio voglia di togliersi anche quelli, di sicuro li custodirebbe gelosamente, come i gioielli di voi "donne col trucco”: faux fèmmes fatales, mascheroni da commedia agghindati, privi di persona e personalità, geishe senza tradizione. In questo caso, e solo in questo caso, il nome del suo scrigno sarebbe azzeccato, perché, a differenza vostra, lei non sarebbe mai capace di confondere l’allegria col metallo e le pietre di un banale monile. Ci sarà un motivo, o no, se lo chiama portagioie?, aveva detto, mostrando la copertina del suo libro. Dieci minuti dopo ero seduta a sfogliarlo e allora ho capito tutto quello che mi aveva detto, dottoressa, tutto” — le disse, piena di entusiasmo, come una bambina. Era una sirena che aveva gettato senza esitazione la sua catena, il suo fascino e la sua attrazione al mare e per nulla al mondo ne sarebbe rientrata in possesso. 
— È andata, Lorelei, complimenti — le rispose Elizabeth, serena in un modo che le altre due non avevano mai visto. Aveva fatto dei progressi invidiabili dall’ultima volta. Era libera. La sua libertà sembrava assoluta, mentre Andromeda osservava i suoi tratti distesi e il suo fiato, così regolare. In quel momento, spiando attentamente la ragazza alle sue spalle, capì il motivo per cui non se ne era andata. La sua era stata una scelta tra stringersi un’altra serie di anelli intorno ai polsi, o sciogliere quelle maledette catene che impedivano all’amore di penetrare fino ai suoi occhi. Per questo si lasciò prendere dalla vista di quella cura e si alzò in piedi anche lei, lentamente, senza cercare il consenso di Arianna che sedeva al suo fianco. Strinse istintivamente il braccialetto che aveva al polso destro e per quell’attimo le parve niente di più che un banale oggetto estetico. 
— Mi piacerebbe leggere — disse, risoluta nella sua decisione, ritornando a sfidare la dottoressa con le sue iridi azzurre. Elizabeth capì che la ragazza era tornata a combattere e che nulla al mondo l’avrebbe fermata. Annuì in silenzio, per non far vacillare i suoi propositi. Quella era una battaglia con se stessa, e l’avrebbe vinta a suo modo. Andromeda sentiva di dover tornare alle favole e alle illusioni, ma con l’unico mezzo che il mondo di fulmini e circuiti le aveva dato: la scienza. 

"Cara Speranza, Spero che un giorno ti deciderai a cambiare il filo di rame con cui cingi i mie sogni, perché quello che usi è troppo teso. Joule mi ha detto che il tuo calore perpetuo lo dilata e lo fa vibrare come la corda di un’arpa, e che verrà la volta buona che, spezzandosi, taglierà a metà il mio cuore. Spero che un giorno ti deciderai a cambiare il bulbo di vetro che contiene i miei desideri, perché fa fatica a trattenerne anche il più piccolo. Coulomb mi ha detto che la tua energia improvvisa lo crepa e lo polarizza peggio dell’acqua, e che prima o poi esploderà come uno zeppelin, vomitando fuori elio e incubi. Spero che un giorno cambierai l’intera lampadina e la avviterai correttamente, perché quaggiù i tuo fotoni sono più graditi della luce stessa” 

Elizabeth ascoltò tutto quello che la sua avversaria aveva da dire, in silenzio, perché stava combattendo le sue paure senza più nessuna protezione. Aveva cambiato strategia, Andromeda, senza più anelli per la sua cotta di maglia, senza più anelli per le sue catene. Era come se avesse spezzato quel legame che la teneva fissa al suolo e avesse lanciato via tutto, il suo sarcasmo, la sua abominevole tendenza a semplificare il mondo e a scappare prima di passare all’attacco. Se prima colpiva a tradimento, come un killer, quella ragazza era diventata una guerriera, affrontando faccia a faccia il combattimento. Era come se Raperonzolo si fosse liberata da sola dalla torre e adesso stesse ai piedi di quell’imponente costruzione, a osservare l’orizzonte. Ecco, con quelle parole e quei braccialetti ai polsi, come manette, residui dei suoi legacci metallici, dei suoi collier d’acciaio, sembrava la principessa di Etiopia, un’Aida alla greca, ma libera da tutto e da tutti. Si era seduta sulla sua scogliera, in mezzo al mare dei suoi problemi, con le sue fila di catene intorno, a tracciare sul pavimento di basalto quella che era stata la sua barriera e la sua condanna. E adesso aspettava, scrutando con speranza il momento in cui sarebbe arrivato il suo principe azzurro. Dire che aveva vinto, era poco: con i mezzi del nemico, la scienza. La dottoressa non sapeva cosa dire e per non rovinare la sua incredulità, batté solamente le mani, un paio di volte. La ragazza, più stupita di lei, la guardò strabuzzando lo sguardo. Non si aspettava quell’esito, dopo la sua fuga. 
— Ce l’ho fatta? — chiese, temendo di ricevere indietro critiche. Lorelei intanto rideva, non se ne capiva il motivo, con un tono di malinconia negli occhi, mentre Arianna vedeva il proprio momento sempre più vicino, temendone il risultato. Elizabeth si concesse un momento per dirle cosa l’aspettava, per farle capire che ora avrebbe potuto aprire la valvola e dare sfogo ai suoi sogni. 
— Nel profondo ognuno di noi ha un cuore che col passare del tempo ha imparato a sezionare in modo che ogni sua parte risplendesse con più lucentezza, come una di quelle belle vetrate da cattedrale gotica, fuori oscura, dentro cangiante. Alimentiamo con la speranza le coronarie, con aspettative la tricuspide, le polmonari con sentimenti ed emozioni, la mitrale con dubbi e sogni. Ma fin dalla prima infanzia impariamo ad attingere questi dolci nutrimenti da pagine fitte di semplici parole inchiostrate. E pensare che basterebbe chiudere il libro prima di posare lo sguardo su quell’ultima frase per evitare che la vita, quassù, assuma le sembianze di una ricerca sfrenata e per lo più vana. Tuttavia, non sogneremmo nemmeno, rimarremmo statici senza aspettative. Muti e incapaci di ascoltare. Ma siamo destinati tutti prima o poi a leggere o a raccontarci favole. Senza le quali sicuramente vivremmo tutti felici e contenti —. 
Andromeda ascoltò quelle parole, attentamente, poi annui, dolcemente. Tutto in lei si era disteso, aveva scacciato il proprio mostro e adesso nessuno l’avrebbe fermata. Stava tornando alla vita. Intanto, coperto dal candido prendisole bianco, il cuore di Arianna batteva all’impazzata nel petto. La dottoressa si girò verso di lei, come per dirle che era venuto il suo turno, ma non parlò per non metterle altra ansia. La osservò, mentre srotolava ossessivamente il proprio filo e respirava profondamente un paio di volte, ripetendosi che toccava a lei e che non sarebbe scivolata. Dietro di lei Lorelei le mise una mano sulla spalla e Andromeda le toccò la gamba. Quel contatto parve calmarla, sentiva che quelle due ragazze, cosi simili, cosi diverse, le stavano dando il loro appoggio. Non si erano mai viste, ma già sembravano le sue amiche più intime. Si fece forza, arrotolò il proprio filo e strinse forte tra le mani il proprio foglio. 

"Caro e basta, siamo seduti a un tavolo e io ti sto chiedendo di passarmi il sale, e a te può sembrare banale, ma io per quel sale ci ho fatto una lista. Il sale rende saporita la vita, per prima cosa e conserva di tutto. Ma il sale alza la pressione del sangue, fa battere il cuore, sempre e sempre di più, uccide. Detto questo, mi passeresti lo zucchero? Oh, saresti dolce, tanto dolce, ma penso che il mio pancreas non la penserebbe allo stesso modo. Vogliamo parlare del pepe? O dello zafferano? Va bene, la smetterò di chiederti di passarmi condimenti, però sappi che se mi passerai amore, l’effetto non sarà diverso da nessuno dei precedenti. Mi farai dannatamente bene, mi farai dannatamente male. Puoi solo sperare che la tua boccetta non cada a terra, perché dovrei lanciare dietro alle spalle il tuo cuore ben tre volte. E io non voglio” 

Era un monologo senza pieghe, pronunciato da una voce stupenda, piena di sentimento, anzi emblema del labirinto emotivo della mente di Arianna. Ma purtroppo, tutti, in quella stanza si accorsero che non andava bene. Non era abbastanza, ecco tutto. Non era riuscita a liberarsi dall’idea del proprio ragazzo, dall’idea che gli aveva dato tutto e che adesso sarebbe rimasta sola. Non era riuscita a liberarsi delle sue catene, e ancora scaricava la propria ansia su quei sette metri di raso di Creta, che però non erano abbastanza per permetterle di superare la delusione e trovare qualcuno disposto ad amarla. Arianna l’aveva sempre saputo, di non avercela fatta, fin dall’inizio di quella giornata, ma il silenzio di tutti confermò le sue aspettative. Vedeva già la dottoressa Frazer accanirsi su di lei, per la sua mancanza di progresso, per la sua cocciutaggine. Per non aver ascoltato il suo consiglio. La reazione fu però diametralmente opposta. 
— Mi dispiace, Arianna, sei tu — le rispose, togliendosi gli occhiali, in un atteggiamento che non le piaceva per niente. La spaventava quasi e istintivamente portò la mano alla catenina con il toro. — Sono io? Come? — le chiese, guardandosi intorno, perché la stanza incominciava a farsi sempre più piccola, più stretta. Le pareti la stavano per schiacciare, mentre Elizabeth si alzava, facendosi più vicina, con un’espressione sul volto tra l’amorevole e il sofferente. 
— Sei l’unica di noi a non essere guarita — le disse Andromeda, con un tono che voleva dire tutto. 
— Le hai ancora addosso le tue catene, non vedi? — le chiese, con un tono quasi arcigno e meravigliosamente attraente Lorelei, alle sue spalle. In quel momento Arianna si sentiva come circondata da quelle presenze. Le sembrava di essersi seduta a uno dei capi di un triangolo, e di essere stata attaccata chirurgicamente alle sue compagne, in una forma assurda e informe di donna trina. Si sentiva come Ecate, tre presenze insieme, da cui non poteva sfuggire. Le mancò improvvisamente il fiato, come se qualcuno la stesse soffocando. Cosa le stava capitando? 
— Non capisci che sei tu, sei tu ad essere malata? — le dissero le sue due presenze ai lati, le ombre. 
— Sono malata? — chiese, chiudendo gli occhi, per evitare quelle percezioni distorte, allo stesso tempo rivolgendosi alla sua unica salvezza in avvicinamento, la dottoressa Frazer. Elizabeth la guardò ancora, decisa, ora che aveva capito, a dirle veramente come stavano le cose. 
— Arianna — le disse, poggiandole una mano sul capo — tu soffri di disturbo dissociativo di personalità —. La ragazza sentiva dentro di sé che era vero. E le due ombre ai suoi lati lo confermavano, con ossessiva insistenza. Siamo in tre, sei una. Tre in una. Disturbo dissociativo di personalità. Tre. Quando finalmente decise di aprire gli occhi, la ragazza si accorse che due sedie erano sparite, con le sue compagne, che era sola: un filo, due braccialetti di ferro e un’acconciatura articolata a pinne, tutto ciò che le era rimasto. La catena di Arianna era un disturbo della personalità multipla. 
Tornata a casa, si spogliò di tutto, tranne di quei gingilli che la rendevano tale, la rendevano Arianna. Le servivano solo il suo filo, la sua collanina a forma di toro e i suoi dubbi, inseriti all’interno di un dedalo fitto di sinapsi e connessioni nervose. Era stata sull’orlo di una crisi, ma adesso, tutto sarebbe andato per il meglio. Tutto. Si sciolse i capelli, buttando a terra tutte le conchiglie che le erano rimaste incastrate nelle balze dorate della sua acconciatura. I suoi occhi cristallini alla vista di quella moltitudine di oggetti sul terreno incominciarono a offuscarsi. Ma tutto sarebbe andato meglio, quindi, per prima cosa, già che era nuda, si sdraiò nella vasca da bagno, evitando di pensare, cancellando ogni sua minima preoccupazione. L’acqua era calda e per qualche attimo sembrò cullarla dolcemente, in un oblio assoluto. Quando si alzò il respiro incominciò a farsi più ritmico e l’asciugamano, stretto intorno al seno sembrava soffocarla lentamente, impedendo ai suoi polmoni di immettere aria. Sarebbe andato tutto bene. Tutto. Per questo si avvicinò allo stereo e vi inserì a caso uno dei dischi che erano sparsi sulla scrivania. Qualche secondo dopo si accorse dalla voce del cantante che dovevano essere i Foo Fighters, anche se la cosa non le importava molto. Non sarebbe andato tutto bene, quindi si lasciò andare al pianto, perché si sentiva debole, si sentiva trina, si sentiva tutto fuorché Arianna. Si accasciò a terra mentre la menzogna della sua vita incominciava a profilarsi davanti ai suoi occhi. Nascosta dietro a catene fittizie, dietro alla sua storia d’amore, aveva forse mentito a se stessa? Aveva mai amato qualcuno, al di fuori della sua testa? Perché non si era mai accorta di essere malata? Mentre si tormentava dietro a quelle domande, le sue ombre le si presentarono, nette e riconoscibili. Erano belle, ognuna libera dalla propria catena amorosa, ognuna con il proprio sorriso. Sconvolgente quanto fossero diverse da lei, Andromeda e Lorelei, le sue personalità, le sue copie. Loro erano forti, erano capaci di impossessarsi del suo corpo e della sua vita, senza farle notare il minimo cambiamento. Chi era lei, in fin dei conti? Chi le assicurava che non fosse lei, la copia? Non vi era più un centro, unico, nell’universo della sua testa, ma tre fuochi, brillanti, lungo cui si muoveva il suo comportamento, una lunga ellisse. Piangeva forte, perché vedeva davanti a sé le proprie personalità, e nulla più. Avrebbero potuto sostituirla, ciascuna con la propria poetica visione del mondo, con il proprio amore. Loro si erano liberate. Loro: le sue muse in catene. Cantavano, seguendo le parole dei Foo Fighters e cantava anche lei, per non essere sottratta al coro, per non perdere il proprio diritto a vivere sopra alle altre. 
"What if I say I’m not like the others? 
What if I say I’m not just another one of your plays? You’re the pretender 
What if I say that I will never surrender?” 

Si gridavano, le une con le altre, tentando di sfuggire ai legacci della coscienza. Ognuna piangeva, ognuna rideva, stavano impazzendo tutte e non vi era soluzione alcuna. Erano agli antipodi, chi parlava di convivere? La canzone seguiva i loro discorsi urlati, in quella stanza che ormai aveva perso completamente i contorni e che le abbandonava al nulla. La ragazza non era che una lotta tra personalità in quel momento, dove ognuna si appropriava dei versi di Dave Grohl. Quale poteva essere la soluzione? Arianna era stata abbandonata dal suo ragazzo e adesso doveva vivere con loro? Ne aveva due di catene, lei, il suo filo e la sua malattia, mentre loro erano avvantaggiate, in quella lotta. Non riusciva più a ragionare, confondendosi con le altre, con le parole e la chitarra elettrica. Cosa poteva fare d’altro, se non vedere quale delle tre maschere avrebbe dovuto vestire? Era inerte e le sue muse si contendevano il dramma della sua vita, per un gioco perverso. Inquietanti. Bisognava capire solo se la sua era una commedia o una tragedia, ma era già difficile capire tutto il resto, quello in fondo era solo il contorno, la cornice. Il rumore di quella musica saliva, scendeva e riprendeva, seguendo la loro battaglia Arianna scappava, seguendo le indicazioni del suo filo, per uscire da quella corrida, per non essere sopraffatta e schiacciata. Poi le furono addosso, la sirena incantatrice e la ragazza con le catene. Sarebbe morta, forse, schiacciata tra le sinapsi del suo ippocampo danneggiato e tripolare, se non avesse incominciato a gridare anche lei, insieme a Dave Grohl. Chi sarebbe sopravvissuta, tra tutte? 
"I’m the voice inside your head 
You refuse to hear 
I’m the face that you have to face 
Mirroring your stare I’m what’s left 
I’m what’s right 
I’m the enemy 
I’m the hand that took you down 
Bring you to your knees 
So who are you? 
Yeah who are you? 
Yeah who are you? 
Yeah who are you?” 

Chi era, quindi? La risposta le venne all’improvviso, come la soluzione, e il mondo le sembrò più chiaro e distinto. Arianna, si disse dentro di sé, in modo che Lorelei e Andromeda potessero sentire e temere, perché era lei. Era sola, la sua era una battaglia da sola. La sua soluzione doveva essere sua, solo sua. Doveva essere quella meno evidente, quella che nessuno si sarebbe aspettato, nemmeno nella sua mente. Si alzò e corse, Arianna, corse in bagno, mentre le sue ombre la seguivano. Una rideva, accasciandosi, tra le tenebre, presa da spasmi improvvisi e la attirava a sé, con la forza del suo fascino. L’altra muoveva le sue serie di anelli e, inquieta, tentava di legarle le gambe, piangendo istericamente, a ogni suo passo, per instillarle il senso di colpa nella vene. Ogni passo che compiva, in quel mondo dai contorni indefiniti, era una sfida e ad ogni passo, senza mai fermarsi, slegava il proprio filo, dal braccio, velocemente. Sette metri di raso di Creta. Continuava a dirsi chi era, per non scordarselo, per tenere saldamente il controllo del suo corpo. Con la mano libera afferrava i braccialetti e le conchiglie sparse sul pavimento, arrancando verso il bagno. Nella sua confusione le sembrò di aver buttato giù la porta, ma sentiva le proprie forze aumentare, mentre le altre due la guardavano sgomente, mentre stringeva i loro simboli tra le mani. Quando fu dentro, si chiuse la porta alle spalle, lottando con le loro voci ammalianti, che le intimavano di smetterla di barricarsi, che sarebbero arrivate. Slegava il più in fretta possibile il proprio filo, metro per metro. Sette. Quando il suo braccio fu completamente libero si sentì svuotata, come una marionetta, e un brivido la prese, salendo per tutta la schiena, mal coperta dall’asciugamano. Ma la sua foga non le permise di concedersi una pausa. Veloce. Legare, filo, anelli, braccialetti, conchiglie. Legava, veloce, tanto aveva a disposizione sette metri. Sette. Veloce. Stanno arrivando, Arianna. Corri. Sali sulla vasca, si, così. Legò un capo al gancio dell’accappatoio, l’altro al transetto della cabina da bagno. Si, abbastanza resistenze. La soluzione, niente più amore. Il raso di Creta, sette metri. Resistente. La porta incominciava a cedere sotto le pressioni di quelle due arpie, delle sirene, delle sue muse in catene. Arianna, Arianna, Arianna! Legare. Quarantacinque, cinquanta chili? Si! Resistente. Conchiglie, catene, filo. Sette metri. Vuota. Era vuota. Si, la libertà, dietro a tutto. Come Epicari. Basta amare, basta essere abbandonata! Mancava poco. Presto. Scese dal bordo e avvicinò un sedia, salendoci subito sopra. Veloce. Testa. Niente più abbandono. Quarantacinque! Tutto, ecco! Soluzione, tutto. Oh no! Noooooo! Muse in catene! Maschere, personalità! Resistente. Ce l’avrebbe fatta! Aha! Sette metri di raso di Creta! Chi sei tu? ARIANNA! Sfondarono la porta, Andromeda e Lorelei, urlando, giusto in tempo per vederla poggiare la testa dentro al cappio. Suicidio! 

Elizabeth aveva appena finito di archiviare il caso, nel mobiletto di quercia dietro la scrivania. Si sedette, con una lentezza inimmaginabile, sulla sua poltroncina, per concedersi qualche attimo di riflessione. Non si aspettava che sarebbe andata a finire così, proprio no. Era diventata troppo vecchia, per quel lavoro, per quelle generazioni che si sdraiavano sul suo lettino, per le sorprese e lo stupore che le portavano. I loro erano problemi enormi e le sue soluzioni potevano coprirli fino a un certo punto, poi doveva arrestarsi, per capire cosa avrebbero fatto loro. In fondo, non era sbagliato, per uno psichiatra, poter pensare di dare qualcosa di più di un consiglio? Non sapeva, forse ogni cosa che usciva dalla sua bocca era troppo inattuale, troppo vecchia. In fondo non c’era da arrabbiarsi, aveva fatto anche lei il suo corso. E nella sua prospettiva, si stava avvicinando il momento in cui ritirandosi, per sbaglio, avrebbe dato alle stampe qualcuno dei suoi casi clinici. Non avrebbe usato di certo il suo nome, per non arrogarsi nessun diritto su quelle composizioni così eterogenee. Sarebbe stato difficile, ne era sicura, ricordare tutte quelle persone, quell’umanità che le era scivolata tra le mani, come una lunga filigrana e che aveva aggiustato con piccoli tocchi. Ci avrebbe messo tempo, si, a ricordare tutti con la giusta quantità di tempo che meritavano. Avrebbe avuto tempo, in pensione, anche se dubitava dell’ironia della vita in queste situazioni: come minimo sarebbe morta nel tentativo di mettere insieme tutto quel materiale! Ci pensò con un sorriso, a quell’eventualità, perché le eventualità capitano più spesso di quanto ci si immagini. Come per Arianna, Andromeda e Lorelei, d’altronde. Un attimo prima la vede uscire dal proprio studio e un attimo dopo la chiamano dall’ospedale per andare dalla sua paziente. Era corsa, con tutto il fiato che aveva perché sapeva, lo sapeva, lo sapeva. Aveva fatto la fine di Epicari. Ma poi se l’era trovata in un letto, il classico sguardo di cristallo, la chioma bionda, senza il suo filo. Sorrideva, come se nulla fosse successo. Sorrideva, con un sorriso che illuminava il mondo. Aveva tutto, tutto dentro di sé. Elizabeth si ricordò di averla osservata a lungo e poi, improvvisamente, aveva incominciato a piangere. Le aveva soppresse, le aveva riportate entrambe all’inconscio. Aveva soffocato Lorelei e Andromeda, le aveva portato via le sue pazienti! Si era liberata delle sue muse e per farlo aveva solo dovuto liberarsi del suo filo. Non ci aveva creduto, piangendo tutta la notte in quella camera, vedendo le sue pazienti morte e Arianna, il carnefice, che sorrideva. Non si era data per vinta, non credeva che si potesse fare una cosa simile. Sarebbero uscite di nuovo, in una delle loro sedute, loro erano forti. Ma si era sbagliata, Elizabeth, di grosso. Quella che aveva avuto davanti, per mesi, era stata la sintesi di tre visioni d’amore incompatibili, nascoste sotto la grazia di Arianna. Ma una Arianna perfetta; unica, trina, nereide, labirinto, corrida, catene, scogli, scettica, ironica, affascinante. Un giorno, all’ennesima seduta, le aveva sorriso e aveva deciso che era finita. 
— Sono guarita, ma lo sa, ritornerò. Rimangono sempre i simboli, le catene, i sette metri di raso di Creta, l’attrazione e le conchiglie. Intanto continuerò con perseveranza nella soluzione che ho scelto. Prenderò giorno per giorno il mio sciroppo per la tosse —. E si era congedata. Tutto quello che era rimasto ad Elizabeth era stato un sorriso. E un’ultima lettera. 

"Cara Solitudine, mi circonda il mondo con le sue richieste gridate e in questo deserto sovraffollato vorrei che tu mi tenessi compagnia, se proprio non puoi stringermi la mano. Un altro cucchiaino. In questa giungla di suoni ho trovato il rimedio universale, il signor A., che potrebbe obbligarmi ad essere per sempre felice. Ho paura, ho paura dei suoi sogni e della sua catena di incanti, perché accontentandomi della sua gioia non posso più lamentarmi di quello che vedo oltre l’orizzonte. Un altro cucchiaino. Sto correndo via da lui, da ciò che dicono potrebbe guarirmi, rimodellarmi la vita nel modo in cui dovrebbe essere. Tutto è troppo bello in questo ricovero, ma adesso è il momento di star male. Un altro cucchiaino. Vieni a prendermi e resta con me, perché ho paura a rimanere in compagnia. Rivoglio la mia asma creativa, lo spasmo delle mie melodie, un enfisema da temperamento equabile, pronto a spezzarmi in dodici al primo fiato. Un altro cucchiaino. E quando starò male e penserò a ciò che ho perduto, a loro due, saremo io e te, che non mi permetti di accontentarmi. Io e il mio amaro, triste e fantastico sciroppo per la tosse. Un altro cucchiaino, per favore.”


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