Liceo Scientifico “Paolo Frisi” - Monza

Premio Letterario “Federico Ghibaudo”


“UNA BRECCIA NELLA PIETRA”
di Silvia Sorrentino - 3a B


Una stanza buia e silenziosa, sei seduto e rifletti, anche se molto su cui riflettere non c’è. Ti senti chiuso in te stesso, i pensieri affollano la tua mente e stai per scoppiare, ma non puoi fame a meno. Non puoi fare a meno di farti uccidere da quel flusso incessante di idee confuse, quel vento forte e fastidioso che ti fa venire il mal di testa. Sei seduto a terra, intorno a te è tutto pietra fredda e dura. Non c’è luce, solo un piccolo spiraglio che sembra impossibile raggiungere, ma sai che quella luce potrebbe essere la tua salvezza. Sei a terra, legato, e senti il freddo di quelle catene immaginarie che ti attanagliano il corpo e non hai la forza di alzarti, di combattere. Ci provi, ma il peso ti fa ricadere e sbatti a terra, e urli. Urli dal dolore che viene da dentro, come se quelle catene ti schiacciassero davvero con il loro peso. Piangi: sei finito. Non sai come liberarti, tutto è più forte di te. Anche il pavimento ora è scomodo: dalle tante volte che ti sei rialzato e sei caduto, si è frantumato, è scabro, non è più quella superficie liscia sulla quale rifugiarsi e di cui ammirare la perfezione. Nemmeno il pavimento è più perfetto, nemmeno la base su cui ti appoggi lo è, come puoi essere perfetto tu allora, se la tua base non lo è? Se ciò su cui fai più affidamento non lo è, non puoi credere di esserlo tu. Eppure ci continui a provare, sfaldando sempre più la tua superficie di appoggio, sperando che quei tanti piccoli difetti, quelle piccole schegge, non siano importanti, che nonostante quelli tu possa rialzarti, barcollare un po’, ma sopravvivere anche sul terreno scosso. Ci riprovi e dici: “questo è l’ultimo tentativo: devo farcela o è finita”. Raccogli tutte le tue forze e ti dai lo slancio verso l’alto. “Ci stai riuscendo, ce la puoi fare” sussurra la tua mente, ma il tuo corpo cede e, esaurito di ogni risorsa, si accascia a terra. L’unica soluzione è arrendersi e ti arrendi, perché quando non hai soluzioni scegli la più drastica. Ti rendi conto che dentro di te regna una sorta di masochismo che, nascosto, ha sempre voluto sentire quel dolore dentro e nel momento in cui tocchi il fondo della disperazione sceglie la fine più dolorosa, forse perché sembra l’unica fine possibile. Il lieto fine non esiste, se non nelle favole, nei film, nel mondo di quand’eri bambino: è questo ciò che ti insegnano tutta la vita e ciò che ti insegna la vita stessa. Aspetti che tutto finisca, che anche quella piccola fortezza di roccia che ti sei costruito ricada su di te, seppellendoti tra le macerie della tua vita. Ma nel silenzio della solitudine e della resa senti qualcosa: un colpetto, leggero, fievole, leggermente affaticato, o forse agitato. Non capisci cosa sia e inizi a guardarti intorno, spaventato cerchi la fonte di quel rumore. Forse qualcuno sta venendo a salvarti, forse qualcuno sta bussando alla tua fortezza e vuole entrare, ma non lo lascerai entrare: quel posto è tuo e solo tuo, quel dolore è tuo e solo tuo. Urli chiedendo chi è e ti sembra di essere il protagonista di un film dell’orrore, ma nessuno risponde. Qualcosa però l’hai sentito di nuovo ed è lo stesso rumore di prima, più forte, più deciso, e sei terrorizzato da che cosa possa essere, quando ti accorgi che è vicino, sempre più vicino. Tum, tum. Tum tum, tum. Ne cerchi la fonte e ti accorgi che proviene dal basso, ma è un basso non troppo distante. Lo senti nel tuo petto e ti accorgi che è il tuo cuore. Il tuo cuore sta battendo, anzi sta letteralmente cercando di uscire dalla gabbia toracica ed è come se lo sentissi urlare. Sei vivo. Il tuo cuore batte: sei vivo. E in quel momento, solo in quel momento, fa strada in te la consapevolezza che ciò che si sta facendo sentire non è solo un organo che pulsa sangue all’interno del tuo corpo, ma è ciò che lo sta rimettendo in moto, gli sta dando la spinta, la carica. È come se volesse battere talmente forte da alzarti lui da quel pavimento e vincere la forza delle catene e reggerti. E allora capisci che puoi farlo: tu puoi rimanere in piedi. Ti metti in ginocchio e, come quando una musica molto potente viene improvvisamente trasmessa attraverso le casse, ti svegli e ti alzi. In quel momento capisci che non solo puoi, ma devi rimanere in piedi, è qualcosa di naturale, che sta dentro di te. Pulsi, come pulsano le note all’interno degli amplificatori ed esattamente come la rete che li imprigiona trema per la musica troppo forte, tu, essere umano, tremi per i battiti troppo frequenti. Ma non ti interessa, stai vivendo. Esplodi come una nota acuta dopo una pausa lunga e sei più potente di prima. Senti la libertà in ogni cellula del tuo corpo e ti senti come se fossi riuscito a spezzare quelle catene con la tua forza. Le hai ridotte in brandelli, ma non ti senti come un prigioniero liberato, piuttosto come un artista che sta facendo la sua entrata in scena. L’artista è circondato dalle luci e dal palcoscenico, tu dai brandelli della catena ormai rotta e dal palcoscenico della tua vita, sul quale sei finalmente pronto ad apparire. Ti alzi e l’insicurezza non c’è più, c’è solo la voglia di recuperare quel tempo che hai perso incatenato nei tuoi pensieri e nel tuo dolore, ti alzi e sei vivo. Nessuno può fermarti, sei la tua stessa ragione di vita e ci volevano quelle catene per capirlo, per capire che sei vivo, qualsiasi cosa ti possa succedere, ti possa far star male, tu sei vivo. E con questa nuova possibilità che hai donato a te stesso, la stanza prende colore e intorno a te c’è luce, c’è sole, c’è vita. 


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